L’apporto delle filosofie occidentali in “Iki no kōzō”

di Alessandra Guerra (Sezione Giappone)

Correva l’anno 1930 quando, dopo un lungo soggiorno in Europa, Kuki Shūzō (1867 – 1941) pubblicò al ritorno in madrepatria quello che è considerato il suo capolavoro, Iki no kōzō 「いき」の構造, conosciuto in italiano come “La Struttura dell’iki“. Appariva in Giappone in un momento decisivo in cui lo stile di vita oggetto di discussione dell’opera stava andando scomparendo, insieme ad altre espressioni tradizionali del mondo giapponese, a seguito della spinta alla modernizzazione. Sebbene in maniera implicita, Iki no kōzō esprime in un certo senso lo struggimento di un popolo che non riusciva a distinguere chiaramente presente e passato, tradizione e modernità, Occidente e Oriente. Kuki Shūzō cercò, attraverso l’analisi della struttura dell’iki, di riportare alla luce “un gusto che si è determinato etnicamente” (Kuki Shūzō, 1992) nel contesto culturale giapponese, applicando al tempo stesso metodologie e correnti di pensiero nate all’interno del panorama filosofico occidentale. Già nella scelta del titolo possiamo notare la dialettica che l’autore aveva intenzione di costruire attorno alle due colonne portanti dell’opera: iki, l’oggetto di analisi del gusto giapponese, viene accostato a kōzō, un termine di recente importazione che intende suggerire il rapporto con la filosofia occidentale.

Durante la permanenza nel Vecchio Continente, iniziata nel 1921 e terminata nel 1929, Kuki venne a contatto con alcuni dei più importanti intellettuali del XX secolo. In Germania fu allievo di Edmund Husserl, conosciuto per il nuovo approccio allo studio della fenomenologia, il quale ispirò Martin Heidegger, un altro dei maestri e colleghi di Kuki, a formulare una propria teoria attorno ad esso, donandole nuove sfumature. È al nome di Heidegger che quello di Kuki viene maggiormente accostato da parte degli studiosi. Le influenze dei due pensatori tedeschi sono molto forti nella sua opera, così come quelle di Henri Bergson e Jean-Paul Sartre, che ebbe modo di incontrare durante i soggiorni a Parigi. Tuttavia, è da considerare anche l’influenza di autori letterari come Baudelaire e D’Annunzio, in quanto Kuki coltivava “in parallelo agli studi, quel raffinato dandysmo” (Baccini, 1992) a cui fa riferimento nella conclusione di Iki no kōzō. È il dandysmo, in effetti, uno dei contesti a cui è più immediato associare il concetto di iki. La sofisticazione, l’eleganza, la malinconia dei dandy possono sicuramente essere accostate alle atmosfere del Karyūkai 花柳界, ma vi sono due differenze fondamentali tra i due mondi: innanzitutto, il dandysmo nacque quasi come atto di ribellione e volontà di auto – affermazione da parte delle persone che portavano avanti questo stile di vita; in secondo luogo, Kuki ci ricorda che mentre i dandy erano personaggi perlopiù maschili, l’iki è un’esperienza che si può ritrovare anche, se non maggiormente, in persone del sesso femminile, e addirittura facenti parte del mondo della prostituzione. Quindi, nonostante l’autore stesso avesse trovato una corrispondenza di attributi tra iki e dandysmo, riesce a metterli a paragone in maniera contrastiva per sottolineare, attraverso una chiarificazione estensiva, le qualità distintive del termine giapponese.

Come detto precedentemente, nell’analisi della struttura dell’iki Kuki ha utilizzato metodologie proprie del pensiero occidentale. Questo approccio appare chiaro nell’introduzione di Iki no kōzō, in cui l’autore afferma che il metodo corretto per procedere allo studio dell’iki è quello ermeneutico, in contrasto con quello eidetico, per porre il problema dell’existentia prima di quello dell’essentia. Bisogna quindi, innanzitutto, cogliere l’iki “in quanto fenomeno di coscienza, e passare poi alla sua comprensione” attraverso le espressioni oggettive o concrete. Specifica, in una nota esplicativa, che i termini devono essere intesi alla maniera di Husserl, Heidegger e Becker. In particolare, come molti studi hanno evidenziato, la condanna della metodologia propria della metafisica platonica fu un concetto importato dal pensiero heideggeriano, e, in Iki no kōzō, vediamo che Kuki condivideva le opinioni del suo maestro in merito. Per quanto riguarda la contrapposizione tra essentia ed existentia, dobbiamo considerare anche l’apporto del pensiero di Sartre, che si concentrò, nel corso delle sue riflessioni filosofiche, proprio su questa problematica. Possiamo menzionare, infine, l’influenza del pensiero di Bergson, che risiede nella riflessione tra memoria e materia: il passato non viene semplicemente ricordato, ma si manifesta attraverso le immagini del corpo. Questo tipo di considerazione viene applicata anche nello studio dell’iki da parte di Kuki, che nella descrizione delle sue espressioni naturali parla del “ricordo che aleggia della recente nudità” (Kuki Shūzō, 1992) di una donna appena uscita dalla vasca da bagno, e anche di occhi che, per essere iki, “devono anche assumere quella specie di bagliore che solo sa evocare la dolcezza del passato” (Kuki Shūzō, 1992).

Una seconda considerazione può essere rivolta all’organizzazione dell’analisi stessa. Si può notare, infatti, che i criteri dell’indagine ricordano quelli applicati da Georg W. F. Hegel nella sua opera: le fasi della tesi, dell’antitesi e della sintesi sembrano mostrarsi vividamente all’interno dell’opera di Kuki. Vi è, all’inizio, la descrizione dell’iki e dei suoi attributi, che serve a rendere il significato stesso del termine “distinto”. Crea in questo modo la tesi o la struttura fondamentale del concetto. In seguito, l’autore procede a mettere a paragone l’iki con alcuni termini che presentano un significato simile ad esso, ma che nei fatti denotano caratteristiche diverse, definendo un contrasto o un’antitesi con tutto ciò che l’iki non riconosce come parte di sé. Dopo aver fatto ciò, dedica due capitoli alla rappresentazione dell’iki attraverso le espressioni concrete, naturali e artistiche, donando al lettore uno spaccato della cultura giapponese attraverso immagini e modi di pensare sofisticati e caratteristici. In questi capitoli finali viene mostrata la sintesi del contenuto di quelli precedenti, in quanto la struttura fondamentale, arricchita attraverso l’esperienza del contrasto, si mostra in una forma dialettica che ha lo scopo, in Kuki, di mostrare l’iki in un piano che superi “l’astrazione formalizzante” o “l’intuizione eidetica” platonica.

Si può affermare, alla luce di queste informazioni, che la figura di Kuki Shūzō si trovava in una posizione particolare nel panorama giapponese: diviso tra i mondi intellettuali tedesco e francese, rappresentava un connubio delle correnti di pensiero di entrambi i paesi, che tuttavia aveva plasmato secondo le sue necessità per la rappresentazione di un valore etnico che, prima di allora, non aveva mai avuto il privilegio di essere messo in discussione come oggetto d’analisi filosofica. Nel leggere Iki no kōzō si ha quasi l’impressione di star leggendo un saggio sull’estetica giapponese scritto da un professore europeo o americano: ciò fa capire allo studioso che i metodi e le strategie filosofiche dell’Occidente sono stati applicati sapientemente nell’analisi di questo concetto proprio dell’etnia Yamato. Solo una persona con un alto grado di sensibilità estetica e filosofica, e con una vasta conoscenza e assimilazione dei modi del pensiero sia occidentale che orientale come Kuki Shūzō avrebbe potuto disquisire in maniera così minuziosa e riuscita riguardo il giapponese concetto dell’iki.

Bibliografia

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  3. Botz-Bornstein, T., (1997), ’Iki’, Style Trace: Shūzō Kuki and the Spirit of Hermeneutics, Philosophy East and West, vol. 47, n. 4, pp. 554 – 580.
  4. Giacomelli, A., (2018), La struttura dell’iki e l’ascolto dell’Essere. Riflessioni sul linguaggio tra Shūzō Kuki e Martin Heidegger, Scenari, vol. 9, n. 1, pp. 128 – 148.
  1. Heine, S., (1990), The Flower Blossoms ‘Without Why’: Beyond the Heidegger-Kuki Dialogue on Contemplative Language, The Eastern Buddhist, vol. 23, n. 2, pp. 60 – 86.
  2. Kuki, S., (1992), La struttura dell’iki, trad. it. di Giovanna Baccini, Milano: Adelphi.
  3. Pincus, L., (1991), In a Labyrinth of Western Desire: Kuki Shuzo and the Discovery of Japanese Being, Boundary 2, vol. 18, n. 3, pp. 142 – 156.
  4. Rolf, J. G., (2019), Heidegger’s Media Critique, KulturPoetik, vol. 19, n.2, pp. 257 – 275.
  5. Schacht, R., (1972), Husserlian and Heideggerian Phenomenology, Philosophical Studies: An International Journal for Philosophy in the Analytic Tradition, vol. 23, n. 5, pp. 193 – 314.

Crediti Immagini

“Women’s Activities of the Tokugawa Era- Creating Bonkei Tray Landscapes LACMA AC1998.235.1.1-.3”

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