Recensione: “LA VEGETARIANA” – Han Kang

di Antonella Gasdia

La seguente recensione fa riferimento all’edizione: “La Vegetariana”, Han Kang, traduzione di Milena Zemira Ciccimarra Fabula, Adelphi, 2016.

“O forse dentro di lei accadevano delle cose, delle cose terribili, inimmaginabili per chiunque altro e, quindi, le era impossibile occuparsi contemporaneamente della vita di tutti i giorni”.


Tra le innumerevoli frasi ad effetto che si possono scovare all’interno del capolavoro, valso a Han Kang il Man Booker International Prize nel 2016, di sicuro questa è una tra le più incisive per estrapolare l’essenza di una tra le protagoniste femminili più rivoluzionarie e controverse che la letteratura coreana possa vantare. Il titolo “La Vegetariana” cela in sé la ferocia ed il distacco di una società nei confronti delle voci, ancora troppo flebili ed inascoltate, delle donne, accostandovi un’evidente esposizione della natura pregiudizievole dell’essere umano.

Il “viaggio” di Yong-hye, che non viene mai narrato attraverso i suoi stessi occhi, ha inizio da un cruento e terribile incubo che la condurrà, ben presto, alla decisione di sbarazzarsi di ogni traccia di carne presente nella sua alimentazione, coinvolgendo, nel suo rinnovato stile di vita, anche il marito. Ai continui “perché” che oscillano tra il disprezzo e la repulsione dei conoscenti e l’apprensione dei suoi cari, tuttavia ella non fa altro che rispondere di aver fatto un sogno. Nel corso della vicenda, il cui punto di vista è in continua evoluzione e si sviluppa in una digressione suddivisa in tre capitoli, si assiste ad un vero e proprio processo di atrofizzazione della natura umana, che si smembra e si ramifica nelle sue complessità.

“La Vegetariana”, Kang Han, traduzione di Milena Zemira Ciccimarra Fabula, Adelphi, 2016. Tutti i diritti riservati all’autore e casa editrice.

Nel tentativo di ricercare affannosamente un quadro chiaro della figura di Yong-hye, ci si scontra con le vite ed i pensieri degli altri personaggi che le ruotano intorno, i quali rappresentano il ricco ventaglio dei tratti distintivi umani: la collera e la frustrazione, insite nelle figure maschili del marito e del padre che, accecati dalla dirompente violenza delle loro emozioni, non cercano di immedesimarsi e si fanno dominare dal dissenso di una scelta che non intendono accettare o comprendere; la brama e la carnalità, peculiarità di un terzo personaggio maschile, il cognato, a cui viene affidata la seconda parte del racconto in cui si palesa il lento ed inevitabile slegarsi di Yong- hye dalla propria umanità; infine, la gelosia ed il rimorso, confluenti nell’altra unica voce femminile: la sorella In-hye. L’ampio spettro di queste emozioni rappresenta anche l’occhio attraverso cui vengono visti e ritratti sia la protagonista che l’intricato mondo in cui scivola e, man mano, si rinchiude, il cui accesso viene negato perfino al lettore, che si ritrova quasi smarrito davanti alla sua progressiva trasmutazione in qualcosa di più vicino al mondo vegetale che a quello umano.

Ma cosa accade effettivamente? Come mai Yeong-hye passa gradualmente dal non assumere carne al rinunciare definitivamente a qualsiasi sostanza che possa tenerla in vita? La risposta non trova una sua definizione ed il lettore si ritrova a combattere tra soluzioni mutevoli e messaggi sfuggenti tanto quanto lo è lo sguardo sempre più assente di un personaggio indecifrabile.

In ogni componente della storia, frutto della risonante e decisa penna di Han Kang, non si legge solo la complessità dell’animo antropico, ma vengono sottintesi meccanismi sociali di una contemporaneità ancora troppo assopita. Se il primo capitolo si staglia fra il cinismo e l’indifferenza del narratore interno che, attraverso una lettura superficiale dei fatti, non è altro che il portavoce del tipico distacco di una società poco attenta e disinteressata tanto ai bisogni, quanto ai desideri o aspirazioni altrui, tra il secondo ed il terzo la vicenda cambia forma e si arricchisce di sfumature. In “La macchia mongolica” e “Fiamme verdi”, i narratori esterni osservano gli avvenimenti al tempo remoto e presente, nel primo caso attraverso l’artista visuale che è il cognato, in cui appare manifesta l’oggettificazione femminile e che si ritrova a leggere l’imperscrutabile natura di Yong-hye come un fenomeno in chiave mistica. Non a caso, avverte in lei lo stesso silenzio dei fiori e delle piante, della natura e si arrende al bisogno di renderla protagonista della sua nuova opera. La loro unione viene posta sullo stesso piano di quella di fiori e piante che, dipinti sui loro corpi, li guidano verso il crollo finale. È In-hye che, nel tentativo di accettare quella che ritiene essere una follia determinata dalla terribile storia familiare, assiste la sorella ormai rinchiusa in una clinica psichiatrica, all’ombra di una foresta e senza la più remota speranza di salvezza. Nella struggente chiusa finale, Yeong-hye viene posta davanti alla scelta tra cibo e morte mentre vengono scanditi, a ritmi incalzanti, il combattivo desiderio di liberazione e la persistente cecità degli sguardi esterni, ancorati al troppo facile e superficiale pregiudizio: essi la scrutano passivamente e non notano altro che un catatonico essere umano, ignorando che quello che per tutti non è altro che la fine, costituisca, per lei, un inizio.

“Non aveva saputo perdonarle di essersi involata da sola al di là di un confine che lei non era mai riuscita a varcare, non aveva saputo perdonare quella meravigliosa irresponsabilità che aveva permesso a Yeong-hye di liberarsi delle costrizioni sociali, lasciandola indietro, ancora prigioniera. E prima che Yeong-hye spezzasse quelle sbarre, lei non sapeva neppure che esistessero.”

Con la realizzazione conclusiva di In-hye si scandisce ed assorbe il risoluto messaggio progressista di un’autrice che lascia al lettore la libertà di individuare una propria chiave di lettura. Scorgendo nei tratti di una donna vittima di malintesi che tutti tentano di intrappolare in stereotipi e canoni, si può intuire come Yong-hye non ne sia mai stata realmente vittima, poiché nessuno sguardo o parola hanno dominato la sua vita o spento il suo arcano ma travolgente desiderio. Nel suo distacco inespressivo, si nasconde la via d’accesso alla libertà, lo sfuggire definitivamente alle imposizioni o agli sguardi accusatori di anonimi sconosciuti che dominano una collettività ormai focalizzata sul rientrare in appropriate categorie, cancellando qualsiasi forma di diversità.

Con questo romanzo a tratti crudo ed impetuoso, Han Kang si fa strada in un mondo dominato dalle parole di troppi uomini e, con il coraggio e la fermezza della sua onesta ed incisiva narrazione, diventa un caso letterario di fama internazionale. In una tradizionale ed omogenea cultura come quella coreana, che ha troppo a lungo relegato le donne a ruoli marginali, alle cosiddette “stanze chiuse”, l’originale ed innovativa corrente si fa portavoce di un grido di dissenso, della lotta di ognuna di esse affinché nessuna si possa più sentire esclusa.

Han Kang

Han Kang was born in Gwangju in 1970. Since the age of ten, She grew up in Suyuri, Seoul after her family moved there. She studied Korean literature at Yonsei University. She made her literary debut as a poet by publishing five poems, including “Winter in Seoul”, in the winter issue of Munhak-gwa-sahoe (Literature and Society) in 1993. She began her career as a novelist the next year by winning the 1994 Seoul Shinmun Spring Literary Contest with “Red Anchor”. She published her first short story collection entitled Yeosu (Munji Publishing Company) in 1995. She participated in the University of Iowa International Writing Program for three months in 1998 with support from the Arts Council Korea. (from https://han-kang.net/Biography)

Immagine di copertina: Kugatsu Tsukai 3D Models Hub (@KugatsuT) (https://www.artstation.com/artwork/588wnJ)

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