di Beatrice Sarracino
Nella tesi di laurea magistrale “I riti apotropaici: lo sikkim kut dell’isola di Chindo e la festa di Sant’Antuono a Macerata Campania” si è cercato di mettere a confronto due riti di purificazione, appartenenti a due culture diverse, al fine di mettere in luce eventuali analogie e differenze.
Lo sikkim kut (씻김굿) è un rito di purificazione appartenente allo sciamanesimo coreano, svolto in occasione di funerali o anniversari di morte per purificare i defunti.
Il termine “sikkim kut” significa letteralmente “rito di lavaggio/purificazione”. Peculiarità delle sciamane ereditiere tanggol (당골), il rito è particolarmente lungo (dura dalle sei alle otto ore) ed è diviso in dodici sezione, chiamate kŏri (거리). Tra le dodici sezioni, sicuramente la più importante, ritenuta il fulcro del rito, è l’isŭlt’ŏlgi (이슬덜기, “spazzare via con le gocce di rugiada”) in cui viene lavata per tre volte la struttura yŏngdon (영돈 , composta da una stuoia di paglia, soldi ed abiti del defunto) che simboleggia il defunto. In questa sezione avviene la purificazione dell’anima del defunto che gli permette di lasciare il mondo terreno a cui era ancora legato.
Aspetto fondamentale di questo rito sono i canti, di cui è possibile individuarne due tipi: canti sacri, svolti per la venerazione degli spiriti, al fine di far entrare la nuova anima nell’aldilà, e dell’anima del defunto; canti tradizionali coreani, per divertire anche coloro che assistono al rito. Le danze e i canti di questo rito, che era uno dei riti più famosi e importanti della Corea, divennero discipline universitarie alla Korea National University, insegnate dal maestro dello sikkim kut Pak Pyŏngch’ŏn.
Tuttavia, a partire dagli anni ’80 circa, il rito iniziò a scomparire gradualmente, poiché iniziò ad essere svolto dalle sciamane possedute kangshinmu (강신무); queste, difatti, erano specializzate nella trasmissione del messaggio degli spiriti tramite la possessione, e poco abili nelle danze e nei canti. Ciò portò ad una diminuzione della qualità artistica del rito e un cambiamento, in quanto si introdusse anche la trasmissione del messaggio degli spiriti. Per tale motivo, il rito era richiesto sempre meno. Il governo coreano, resosi conto che lo sikkim kut rappresentava una parte della cultura coreana, si impegnò per preservarlo a livello nazionale; nel 1980 divenne patrimonio culturale numero 72 della Corea. Successivamente, iniziarono le rappresentazioni dello sikkim kut sul palcoscenico per la commissione UNESCO, con lo scopo di vederlo riconosciuto anche a livello internazionale. Questo nuovo modo di presentare il rito ha portato ad un ulteriore cambiamento: è stato drasticamente ridotto a meno di un’ora, non si eseguono tutte le sequenze, vi è la quasi totale assenza dei balli.
Nonostante il rito sia stato studiato dalla Chonnam National University nel 2012, che ha presentato un resoconto all’UNESCO sull’arte funeraria di Chindo, lo sikkim kut non è ancora patrimonio culturale immateriale dell’umanità.
Il rito associato a Sant’Antonio Abate, chiamato Sant’Antuono nell’Italia meridionale, è un rito di purificazione della terra, che avviene tramite la percussione di strumenti da lavoro agricoli quali botti, tini e falci (in napoletano: ‘a votte, ‘a tenella, ‘o faucione) per scacciare il male da campi e cantine. Questo rito ha origine in epoca precristiana, quando i lavoratori della terra, nel periodo di pausa (presumibilmente nei mesi di gennaio e febbraio) si dedicavano alla venerazione delle divinità ed eseguivano questo rito per scacciare gli spiriti maligni, che potevano influenzare negativamente la riuscita del loro raccolto. Visto il periodo in cui viene svolto, col passare del tempo il rito venne fatto rientrare nei festeggiamenti in onore di Sant’Antonio Abate che ricorrono il 17 gennaio. Probabilmente, fu associato a lui perché anche il Santo egiziano durante la sua vita aveva combattuto contro il demonio tentatore, vincendo sul male.
Gli strumenti da lavoro, in occasione della festa di Sant’Antuono a Macerata Campania, diventano strumenti musicali a tutti gli effetti, i quali, in tempi più recenti, sono stati accompagnati anche da classici strumenti musicali come chitarre classiche e acustiche. Questi strumenti atipici vengono percossi, seguendo dei ritmi prestabiliti, dai bottari su enormi carri trainati da trattori. I carri, solitamente lunghi all’incirca 30 metri, rappresentano scene di vita di Sant’Antonio, come la lotta contro il male o la sconfitta del male, o semplicemente sono rivestiti di foglie di palma, che richiamano l’origine egiziana del Santo.
Anche in questo rito, i canti sono un elemento fondamentale e possiamo distinguere due tipologie di canti: canti volti alla venerazione di Sant’Antuono; canti della tradizione napoletana e canti scritti per la festa dai bottari delle varie battuglie (nome univoco per indicare tutti i carri o un singolo carro).
La festa di Sant’Antuono, intesa come svolgimento del rito di purificazione e di tutti gli eventi che si svolgono per commemorare il Santo (sfilata dei carri tradizionali, il cippo di Sant’Antuono, lo scoppio dei fuochi pirotecnici figurati, la questua e la riffa), a causa dei continui cambiamenti che subìva di anno in anno (i numeri dei partecipanti all’esecuzione del rito aumentò notevolmente, così aumentarono anche i carri, vennero introdotti impianti di amplificazione sui carri per far udire i canti che prima venivano gridati, una forte rivalità tra i componenti delle varie battuglie) e una scarsa organizzazione della festa, la portarono quasi all’estinzione. Ciò non avvenne grazie alla nascita dell’Associazione Sant’Antuono e le Battuglie di Pastellessa, che dal 2008 si occupa di organizzare e promuovere la festa. Diventata ONG accreditata UNESCO, l’associazione tutt’oggi si batte per far diventare questa tradizione secolare patrimonio culturale immateriale dell’umanità. Ad oggi, la festa di Sant’Antuono è iscritta nell’Inventario del Patrimonio culturale immateriale campano (IPIC) e l’Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli” si occupa di studiarla in un progetto di ricerca da sottoporre alla commissione UNESCO.
Dall’analisi e dal confronto di questi due riti possiamo notare che i due riti hanno la funzione analoga di esorcizzare e purificare. Tuttavia, appartengono a due sistemi religiosi completamente diversi, lo ssikkim kut allo sciamanesimo coreano e il rito associato a Sant’Antuono oggi viene riproposto in occasione dei festeggiamenti religiosi per il Santo.
Lo svolgimento dei riti è totalmente diverso; lo ssikkim kut si svolge in una sola notte, mentre la festa di Sant’Antuono viene divisa in più giorni, partendo dalla settimana antecedente a quella del 17 gennaio. Un’altra differenza emerge dalla figura principale di entrambi i riti: per lo ssikkim kut ritroviamo la figura predominante femminile della sciamana (tanggol o kangshinmu che sia), mentre per il rito di Sant’Antuono ritroviamo la figura predominante maschile dei bottari.
Un’altra analogia la ritroviamo dal punto di vista musicale; è evidente, infatti, che un aspetto fondamentale di entrambi i riti sono i canti, religiosi e tradizionali, che vengono proposti per divertire spiriti, Santi e coloro che assistono ai riti.
Possiamo notare, inoltre, che entrambi i riti erano in via d’estinzione a causa dei cambiamenti avvenuti nel tempo per necessità. Tuttavia, le autorità locali hanno compreso che queste due tradizioni secolari rappresentano appieno la cultura sia coreana che italiana e, per tale motivo, entrambe sono state riconosciute come patrimoni culturali nazionali, con la speranza un giorno di vederle riconosciute a livello mondiale.
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Copertina: “Mudang” by Jens-Olaf is licensed under CC BY-NC 2.0