L’archetipo del Bambino Divino nel Buddhismo Esoterico

di Loris Zevrain

L’archetipo del «bambino divino», per quanto possa rappresentare un modello minore all’interno della tradizione artistica giapponese, è in realtà un prototipo che figura in diverse culture, tra cui spiccano sicuramente quella cristiana, dove il Cristo bambino è simbolo di speranza e immortalità, nonché quella indù, dove il Krishna1 कृष्ण (Kṛṣṇa) bambino è invece simbolo di saggezza. Tornando però a focalizzarci sull’arte propriamente giapponese, l’archetipo appare in diverse forme ispirate sia al canone buddhista, che all’agiografia sacerdotale, ovvero la letteratura relativa alla vita dei sacerdoti, o ancora, alla complessa sintesi delle tradizioni e credenze locali. Le immagini relative al bambino divino si ritrovano in ogni fase dell’arte religiosa giapponese e i primi esempi, risalenti al VII secolo, sono statuette in bronzo dorato del Buddha bambino (Guth 1987: 1). In particolare, immagini e statue di bambini divini furono molto diffuse durante i periodi Kamakura (1185-1333) e Muromachi (1336-1573), epoche in cui era credenza comune che i bambini esistessero in un’area liminale tra i regni del sacro e del mondano e venivano per questo considerati più prossimi rispetto agli adulti al regno sacro delle divinità buddhiste e dei kami 神, ovvero le divinità natie giapponesi (Fukuchi 2009: 81). Tuttavia, così come sottolineato da Blacker (1963: 87), come altri simboli che inspiegabilmente persero il loro potere e significato, la figura del bambino divino sembra essere scomparsa dal Buddhismo popolare giapponese entro la fine del periodo medievale.

La figura del chigo

In Giappone, i termini utilizzati per definire il “bambino” sono molteplici e fanno tutti capo a delle sfumature di significato legate a fattori di natura differente, di cui l’età e le origini sociali ne sono un esempio. Il termine più ricorrente, soprattutto in ambito artistico, è quello di chigo, ma anche dōji 童子 e wakamiya 若宮 sono forme altrettanto comuni. Tuttavia, prima di approfondire l’archetipo del bambino divino dal punto di vista prettamente artistico, è d’obbligo operare una riflessione sulla figura del chigo al fine di comprendere ‘chi’ fosse e ‘quale ruolo’ rivestisse all’interno della società giapponese.

Un ottimo punto di partenza per delineare questa figura può essere quello della definizione etimologica del termine. L’origine del giapponese chigo è «chichigo», che significa letteralmente «bambino che succhia dal seno» (Porath 2017: 19), e la parola chigo apparve per la prima volta in documenti del X secolo, ne sono un esempio il Taketori monogatari 竹取物語 (Storia di un tagliabambù) e lo Utsuho monogatari 宇津保物語 (Racconto di un albero cavo). Anche se l’origine del termine rimanda al ‘neonato’, in realtà non definiva esclusivamente i bambini di tenera età, o almeno non nell’accezione che la parola assunse nel contesto medievale, quando iniziò a denotare i bambini di età compresa tra i sette e i quattordici anni circa. A tal riguardo, Paul S. Atkins (2008: 947) dà una definizione di chigo molto concisa ed immediata: maschi adolescenti affiliati a templi buddhisti o famiglie aristocratiche che venivano educati, nutriti e ospitati in cambio di servizi personali, compresi quelli sessuali, nel Giappone medievale. Tuttavia, non bisogna dimenticare che il chigo, all’interno dei templi buddhisti, aveva anche altre mansioni, quali la partecipazione a processioni formali, cerimonie religiose e funzioni pubbliche.

Kūkai e il Chigo Daishi

Tra le diverse opere in cui figura l’archetipo del bambino divino, la più celebre ed emblematica è sicuramente il Chigo Daishi 稚児大師 (Il Gran Maestro bambino) (Figura 1), un rotolo da appendere del XIV secolo conservato al The Art Institute of Chicago, di cui la figura di Kūkai 空海 (774-835) è protagonista. Noto anche col nome postumo di Kōbō Daishi 弘法大師 («Il Gran Maestro che divulgò il Dharma2») conferitogli dall’Imperatore Daigo 醍醐天皇 (885-930), Kūkai fu una delle figure più rilevanti all’interno del panorama storico-religioso giapponese. È ricordato principalmente per essere il fondatore della scuola buddhista esoterica Shingon 真言 («vera parola») e per aver dato inizio alla diffusione della teoria del cosiddetto honji suijaku 本地垂迹 («sostanza originale, tracce manifeste»), teoria che reinterpretava i kami come ‘tracce manifeste’ della ‘sostanza originale’ rappresentata dai Buddha e dai bodhisattva3 e che permise una fusione tra le divinità e le pratiche shintō 神道 natie e quelle buddhiste (Encyclopedia Britannica 2020).

Figura 1. Chigo Daishi (Il Gran Maestro bambino). Periodo Kamakura, XIV secolo. Rotolo da appendere; inchiostro, colore e oro su seta.
86.7 x 48.9 cm. The Art Institute of Chicago. Donato dalla Joseph and Helen Regenstein Foundation.

Nel Chigo Daishi, come sottolineato da Guth (1987: 2), il giovane Kūkai è mostrato di tre quarti, inginocchiato su un grande piedistallo a forma di fior di loto con le mani giunte in preghiera. È vestito in abiti da corte composti da un hakama4 袴 color lavanda e un kosode5 小袖 rosa con un motivo allegro e colorato di fiori d’arancio. I capelli lucenti, divisi nel mezzo e che cadono sulle spalle alla maniera di un kamuro 禿 («inserviente di corte»), le guance piene e le piccole labbra imbronciate gli conferiscono un aspetto un po’ effeminato. L’aureola, simile ad un utero che racchiude la sua figura su uno sfondo vuoto, e la seduta a forma di fior di loto simboleggiano la purezza del Buddha, ma conferiscono all’immagine anche un ché di soprannaturale e senza tempo. Il fior di loto, infatti, è un simbolo spesso paragonato a un cuore puro che non è macchiato dai desideri terreni e appare in varie scritture buddhiste. Inoltre, è di frequente usato come simbolo per la solennità del Buddha e dei bodhisattva. L’atto del gasshō 合掌 («giungere le mani in preghiera») invece, assume il significato dell’essere un tutt’uno con la divinità, infatti, giungendo le mani, si mostra devozione a questa e obbedienza agli esseri superiori. Allo stesso modo, la postura dello seiza 正座 («inginocchiarsi con il dorso dei piedi sul pavimento sedendosi sulle piante dei piedi») è spesso adottata dai devoti che si rivolgono agli dei e al Buddha (Fukuchi 2009: 84). Poi, come fa notare Sewell (1960: 5), sebbene si noti una certa riservatezza e formalità nel dipinto, non c’è rigidità. In effetti, la compostezza della posa, le mani e gli occhi semichiusi sembrano catturare un tranquillo momento di introspezione e rivelazione e la delicatezza del tocco sottile e dei colori tenui evoca un tenero stato d’animo di serenità nello spettatore.

L’iscrizione che si trova nella parte superiore del rotolo risulta essere invece una citazione dal Nijūgo kajō no goyuigō二十五か条の御遺告 (Il testamento dei 25 articoli, 835), una serie di istruzioni che si ritiene siano state preparate da Kūkai per i suoi discepoli, considerato come il resoconto autorevole dei primi anni di vita del maestro. Nel passaggio, scritto in caratteri cinesi su tre shikishi6 色紙 colorati e decorati, Kūkai narra di un sogno che ebbe all’età di cinque o sei anni in cui fu portato su un fiore di loto a otto petali in un regno celeste dove conversò con diversi Buddha sui principi del Buddhismo.

Chigo Monju

Sicuramente meno celebre, ma indissolubilmente legato al Buddhismo Shingon, è il rotolo da appendere noto come Chigo Monju 稚児文殊 (Il bodhisattva Monju bambino) (Figura 2), risalente al XIII secolo e conservato al Boston Museum of Fine Arts. Il rotolo rappresenta il bodhisattva della saggezza Monju 文殊菩薩 (Monju bosatsu), introdotto in Giappone già a partire dal VI secolo e parte delle jūsanbutsu 十三仏, ovvero le tredici divinità della setta Shingon del Buddhismo esoterico. Secondo la tradizione, la sua dimora terrena è il Monte Wutai in Cina, dove si dice apparisse spesso ai credenti in sembianze umili o giovanili, ed è spesso rappresentato come una figura principesca vestita in abiti indiani e adornata con gioielli e una corona (Guth 1987: 13). In Giappone, il bodhisattva è di frequente raffigurato con la spada della saggezza nella mano destra per disperdere le ‘nuvole dell’ignoranza’ e cavalcante un leone 獅子 (shishi) ruggente, simbolo della voce della Legge buddhista e del potere del Buddhismo di superare tutti gli ostacoli (Schumacher 2011).

Il formato di quest’opera riprende quello del Chigo Daishi del The Art Institute of Chicago. Il bodhisattva, come fa notare Guth (1987: 13-15), è presentato con un aspetto paffuto, vestito con una gonna a motivi geometrici e con sciarpe e gioielli sul collo e sulle spalle. È seduto su un ampio piedistallo a forma di fior di loto collocato su un semplice sfondo con tre shikishi colorati e inscritti sopra la sua testa. I capelli legati in cinque nodi, una caratteristica distintiva del Chigo Monju, alludono all’importanza simbolica del numero cinque nel suo culto (uno dei principali mantra recitati per invocare i poteri di Monju è composto da cinque sillabe e il Monte Wutai ha cinque picchi, che fanno riferimento ai cinque tipi di saggezza fondamentali per la setta Shingon). Nella mano destra Monju tiene un rotolo, probabilmente lo Hannyakyō 般若経 (Sutra della perfezione della saggezza, dal sanscrito Prajñāpāramitāsūtra प्रज्ञा पारमिता, composto tra il 100 a.C. e il 600 d.C. circa), mentre nella mano sinistra un fior di loto.
È di particolare interesse in questa raffigurazione il fatto che l’archetipo del bambino divino assuma un significato ben preciso: in questa veste umile e giovanile, Monju insegna che le apparenze sono ingannevoli e che santità e saggezza possono assumere molte forme. Infatti, l’apparizione di Monju sotto le spoglie di un ragazzo esemplifica la nozione buddhista di hōben 方便 (dal sanscrito upaay उपाय), ovvero «espedienti» per raggiungere uno scopo, il che fa riferimento ai mezzi utilizzati dai Buddha per aiutare gli esseri senzienti a raggiungere l’illuminazione (Guth 1987: 16).

Figura 2. Chigo Monju (Il bodhisattva Monju bambino). XIII secolo. Rotolo da appendere; inchiostro, colore e oro su seta; 83.9 x 41.6 cm. Boston Museum of Fine Arts

Riflessioni conclusive

In conclusione, possiamo affermare che, come sottolinea Guth (1987: 19-20), il successo del Buddhismo in Giappone è dovuto in gran parte alla sua capacità di sfruttare il potere emotivo dei simboli locali, regionali e nazionali per comunicare valori e concetti profondi, spesso astratti. In quest’ottica, l’archetipo del bambino divino diventa quindi espressione diretta del principio dello hōben, riflettendo il modo in cui le lontane e impersonali divinità buddhiste sono state trasformate e adattate per soddisfare le esigenze dei devoti giapponesi. Nonostante le rappresentazioni del bambino divino siano cadute in disuso nel panorama artistico giapponese, come fa notare Blacker (1963: 86), la figura del chigo svolge ancora oggi un ruolo fondamentale in molti riti shintō; egli rappresenta la divinità e anzi, nella misura in cui riceve i doni e i banchetti preparati per essa, diventa egli stesso la divinità. Infatti, come già accennato nel paragrafo introduttivo, nel medioevo giapponese i bambini rappresentavano una categoria ontologica distinta dalle persone, erano considerati sacri proprio perché ai margini della società (Kuroda 1986), rendendosi così pienamente parte della categoria delle cosiddette ‘non persone’. In questo senso quindi, la pubertà rappresentava il momento di acquisizione del ruolo sociale e di perdita di quello religioso. Ciò premesso, nonostante si tratti di un prototipo comune a diverse culture e nonostante la sua massima espressione si possa ritrovare nell’iconografia buddhista, non è difficile individuare nell’archetipo del bambino divino delle radici propriamente giapponesi, le quali si possono ricondurre alla figura tradizionale della miko 巫女 , ovvero la vergine del tempio in grado di controllare stati alterati di coscienza e di comunicare le parole di esseri soprannaturali, la quale veniva reclutata fra le giovani ragazze impuberi e vergini della comunità e partecipava ai riti solo in quanto simbolicamente negata come donna adulta.

Note

  1. Eroe della mitologia indiana e divinità fra le più note e popolari dell’induismo. Una delle incarnazioni (avatāra, dal sanscrito avataar अवतार) del dio Visnù विष्णु (Viṣṇu), è stato poi identificato con Visnù medesimo (Enciclopedia online Treccani 2020).
  2. Dal sanscrito dharm धम, fa riferimento alla legge religiosa e morale e all’osservanza dei doveri ad essa inerenti. È spesso tradotto con «Legge» (Enciclopedia online Treccani 2020).
  3. Nel pensiero religioso buddhista, essere vivente destinato a conseguire la bodhi बोधि («illuminazione»), cioè a divenire un Buddha (Enciclopedia online Treccani 2020).
  4. Lunga sottana tradizionale indossata nelle cerimonie.
  5. Kimono tradizionale a maniche corte.
  6. Quadrati di carta colorata o decorata usati per scrivere poesie.

Bibliografia

  1. Atkins, P. S. (2008) Chigo in the Medieval Japanese Imagination. The Journal of Asian Studies, vol. 67, n. 3, pp. 947- 970.
  2. Blacker, C. (1963) The Divine Boy in Japanese Buddhism. Asian Folklore Studies, vol. 22, pp. 77-88.
  3. Fukuchi, K. 福地佳代⼦ (2009) Shizuokaichiritsu Serizawa Keisuke Bijutsukan shozō “chigo daishi”: seisei o kengen suru dōji katachi 静岡市立芹沢銈介美術館所蔵「稚児大師」: 聖性 を顕現する童子形 [The Chigo Daishi Owned by Shizuoka City Serizawa Keisuke Art Museum: An Image in the Appearance of a Child Representing Sanctity]. Tohoku Fukushi University Serizawa Keisuke Art and Craft Museum Annual Report, vol. 1, pp. 81-90.
  4. Guth, C. M. E. (1987) The Divine Boy in Japanese Art. Monumenta Nipponica, vol. 42, no. 1.
  5. Kuroda H. (1986) Kyōkai no chūsei: Shōchō no chūsei 境界の中世: 象徴の中世 [The borders of the medieval: The borders of the symbol]. Tōkyō, Daigaku Shuppansha, pp. 1-23.
  6. Porath, O. (2015) The Cosmology of Male-Male Love in Medieval Japan: Nyakudō no Kanjinchō and the Way of Youths. Journal of Religion in Japan, vol. 4, pp. 241-271.
  7. Porath, O. (2017) Nasty Boys or Obedient Children?: Childhood and Relative Autonomy in Medieval Japanese Monasteries. In Frühstück S. & Walthall A. (Eds.), Child’s Play: Multi-Sensory Histories of Children and Childhood in Japan. Oakland, California, University of California Press, pp. 17-40.
  8. Sewell, J. V. (1960) Notes on Two Recently Acquired Japanese Portraits. The Art Institute of Chicago Quarterly, vol. 54, n. 2, pp. 8–11.

Sitografia

  1. The Art Institute of Chicago, https://www.artic.edu/artworks/11146/kobo-daishi-kukai-as-aboy-chigo-daishi. [Consultato il 14/12/2020]
  2. “Honji suijaku”. Encyclopedia Britannica, https://www.britannica.com/topic/honji-suijaku [Consultato il 14/12/2020]
  3. Schumacher, M., 2011. Monju Bosatsu (Bodhisattva) – Japanese Buddhist Deity Of Wisdom And Education, https://www.onmarkproductions.com/html/monju.shtml [Consultato il 14/12/2020]
  4. “Dharma”. Enciclopedia online Treccani. https://www.treccani.it/enciclopedia/dharma/. [Consultato il 28/12/2020]
  5. “Krishna”. Enciclopedia online Treccani. https://www.treccani.it/enciclopedia/krishna/#:~:text=(il%20suo%20vero%20nome%20%C3%A8,agli%20Europei%20e%20a%20raccogliene%20notizie [Consultatoil 28/12/2020.]
  6. “Bodhisattva”. Enciclopedia online Treccani. https://www.treccani.it/enciclopedia/bodhisattva/ [Consultato il 28/12/2020.]
  7. “Vajrayāna”. Enciclopedia online Treccani. https://www.treccani.it/enciclopedia/vajrayana/ [Consultato il 07/01/2021]

Immagini

  1. The Art Institute of Chicago, https://www.artic.edu/iiif/2/8fb82c24-924e-028e-bce0-a7b4ff99d642/full/843,/0/default.jpg
  2. Guth, C. M. E. (1987) The Divine Boy in Japanese Art. Monumenta Nipponica, vol. 42, no. 1, p. 14.

Copertina: “Monju Bosatsu with Eight Sacred Sanskrit Syllables” is marked with CC0 1.0

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