di Simona Tarquini
Consacrato ad eroe del popolo e tramandato principalmente dalla tradizione orale, la vita di Kim Sakkat (김삿갓) resta tutt’oggi un eco lontano e imprecisato, una leggenda della tradizione popolare coreana del diciannovesimo secolo che lo ricorda come alternativo, un personaggio insolito, un poeta maledetto che seppe conquistare la solidarietà della gente comune, nonché la loro simpatia, attraverso le sue critiche mosse nei confronti dei potenti, degli oppressori, acquisendo in tal modo una funzione di denuncia all’interno di una società selettiva come quella della fine del periodo Chosŏn (조선), 1392-1910.
Ed è questa sua peculiarità di uscire fuori da ogni convenzione che ha reso Kim Sakkat il protagonista principale del romanzo di Yi Mun’yŏl, Siin 시인 (“Il poeta”) del 1987, e forse una delle poche testimonianze scritte sulla vita di questo personaggio discusso, la biografia romanzata di un poeta del quale, nonostante l’epoca recente in cui ha vissuto, si conosce molto poco fatta eccezione per alcune fonti isolate.

Pubblicato da Bompiani nel 2012 a cura di Maurizio Riotto, la trama del romanzo anticipa quanto in esso contenuto, ovvero la storia di Kim Pyŏng’yŏn iniziata nel 1807 in un villaggio a nord dell’attuale Sŏul, capitale della Corea del Sud, e gli eventi che ne hanno caratterizzato la vita, da nipote sfortunato di un uomo ritenuto traditore dello stato, fino alla ricerca e la scoperta della sua identità di poeta con il nome di Kim Sakkat, il tutto narrato dalla penna creativa di Yi Mun’yŏl.
Quando il governatore del re, caduto nelle mani dei ribelli e convinto a sostenere la loro causa, viene catturato dalle truppe reali e giustiziato, anche i suoi figli e i suoi nipoti vengono condannati a morte. Riescono miracolosamente a salvarsi, ma hanno perso il loro posto nella società. “Il poeta” racconta la storia di Kim, il più giovane dei nipoti del governatore, che si trova suo malgrado condannato a una vita di vagabondaggio ed elemosina come poeta girovago. Nel tentativo di risollevare la misera sorte della famiglia, commette però un secondo tradimento, questa volta contro la sua stessa casa. Mun’yŏl ci offre una storia luminosa e accattivante che ruota attorno a un personaggio profondamente umano nella sua ricerca di sé e del rispetto verso sé stesso.
Nobile di un casato ormai caduto in rovina, nemico dello stato, un vagabondo dalla vita spesso scandalosa, un personaggio scomodo a molti, eppure, per Yi Mun’yŏl, Kim Sakkat è perfetto per indossare l’abito del protagonista, accompagnato fin dalle prime pagine del libro in un cammino tortuoso verso la redenzione, verso quella che viene descritta da Riotto come una perfezione che l’autore regala generosamente, alla fine, al proprio protagonista. Kim Sakkat, tuttavia, non è un semplice protagonista, bensì il protagonista ideale, l’esempio vivente attraverso la cui storia Yi Mun’yŏl ha potuto denunciare i meccanismi senza tempo della società coreana, così spesso ingiustamente invalidante, e che pure non può nulla contro i valori intellettuali del singolo individuo, e poi la poesia che sembra il filo conduttore necessario per dare vita ad un parallelismo indiscusso tra lo scrittore e la sua creatura.
La vita del poeta è più simile a quella dello scrittore di quanto si possa immaginare, e nel corso dello svolgimento del romanzo non è così difficile avere l’impressione che Yi Mun’yŏl abbia dato voce anche alla propria storia sovrapponendola a quella di Kim Sakkat. Ugualmente rifiutato dalla società, Yi Mun’yŏl ha scontato sulla propria pelle le colpe del padre, il quale, durante la guerra di Corea, combattuta nella penisola coreana dal 1950 al 1953, fuggì al nord diventando un traditore politico mentre la sua intera famiglia ancora al sud veniva emarginata, ostracizzata, costretta a spostamenti frequenti, strettamente controllata con ingiustificato sospetto.
Ridotto pertanto alla povertà dall’impossibilità di trovare un’occupazione all’interno di una società che non voleva accettarlo, Yi Mun’yŏl visse quanto secoli prima aveva vissuto lo stesso Kim Sakkat, entrambi sospesi in un limbo dal quale solo la poesia è stata in grado di liberarli, certo – mai del tutto liberi dal giudizio della gente, e che pure li ha resi qualcos’altro, qualcosa fuori dal comune; il dramma è diventato così grandezza, emarginati da un governo che paradossalmente li ha salvati costringendoli a dissociarsi dalla società, e con essa dalla sua insaziabile corruzione. Ed è a questo punto che entra in gioco la poesia e ne “Il poeta” Yi Mun’yŏl, attraverso un monologo, non a caso, fa pronunciare a Kim Sakkat le parole che seguono:
L’essenza della poesia sta unicamente nel suo valore. Non deve prostrarsi dinanzi ai potenti, non teme la conoscenza. Non ha riguardo per i ricchi, né per il risentimento dei poveri. Non si può misurare sulla base di ciò che è giusto o ponderare sulla scala di ciò che è vero. La poesia è libera, la poesia è autosufficiente.
Se Kim Sakkat è il protagonista principale del libro di Yi Mun’yŏl, la poesia viene subito dopo, rappresentata come un organismo vivente che trascende la ricchezza, la povertà, il concetto di ciò che è giusto o ciò che è vero, un’entità svincolata dagli schemi sociali. Di conseguenza il poeta non può essere da meno in quanto non può esistere in un contesto simile, non può essere poeta senza prima affrancarsi dall’essere uomo. Kim Sakkat abbandonò la sua famiglia per intraprendere la vita del poeta vagabondo e da quel momento si può dire che divenne egli stesso poesia.
Contadino, fratello, padre di famiglia, il libro di Yi Mun’yŏl non lascia spazio a ruoli del genere per il suo protagonista ideale. Sarà Kim Ikkyun, il secondo figlio di Kim Sakkat, alla fine del libro a comprendere la natura della libertà perseguita dal padre, che è al contempo la sua prigione. L’idea trasmessa da Yi Mun’yŏl è che la poesia è viva e Kim Sakkat, in quanto poeta, al di là delle sue ferite interiori, ha abbandonato la sua famiglia perché solo così, a quel punto, sarebbe potuto esistere. Ikkyun realizza infatti che difficilmente suo padre sarebbe riuscito a chiamare una nuvola o a far sbocciare un fiore fra le quattro mura della sua piccola casa, o che altrettanto difficilmente sarebbe rimasto un poeta, dopo essere tornato a casa per morire. L’ultimo augurio che gli fa è dunque di trovare la felicità e la pace nella poesia, gli augura di essere egli stesso poesia, e di morire un giorno come tale.
Chi è dunque il poeta di cui parla Yi Mun’yŏl? Qual è la sua storia? Sono solo alcune delle domande perseguite nelle pagine dello scrittore sudcoreano, e per concludere, citando le parole di Maurizio Riotto scritte nella postfazione alla fine del libro:
Per essere ricordati non occorre necessariamente essere re o dittatori, papi o presidenti. Ho chiesto a una vecchia donna coreana, completamente analfabeta, se mai sapesse chi fosse stato Kim Sakkat, e la risposta è stata tanto semplice quanto immediata: “un poeta”.

Yi Mun’yŏl
Yi Munyol. – Scrittore sudcoreano (n. Yongyang 1948). Durante la guerra di Corea suo padre fuggì nel Nord, e la sua famiglia visse nella povertà e nell’emarginazione sociale, esperienza che si è riflessa nelle sue opere. Autore di grande raffinatezza formale, ha scritto numerosi romanzi e racconti, tra i quali: Il figlio dell’uomo (1979), L’uccello dalle ali d’oro (1982), Il nostro eroe decaduto (1987). (Bio autore da: Enciclopedia Treccani https://www.treccani.it/enciclopedia/yi-munyol/ )
Bibliografia
- Yi Mun’yŏl, Il Poeta, Maurizio Riotto (a cura di), Bompiani, Milano, 2012.