di Simona Cavucci
“E il Giappone ha perso il suo figlio adottivo […] Forse l’unico europeo che
abbia davvero conosciuto e amato quella terra. Non con l’amore dell’esteta o la
passione dello studioso, ma con un sentimento più intenso, più raro e completo:
con l’amore di chi prende parte alla vita interiore del paese.”
Così scrisse Hugo Von Hofmannsthal, drammaturgo e poeta austriaco, all’indomani della morte di Lafcadio Hearn avvenuta a Tokyo nel 1907. Il suo scritto, posto poi a prefazione della traduzione tedesca del testo Kokoro 心 di Lafcadio, lo celebra in quanto studioso, in quanto amante di quel paese sconosciuto ai più.
Nei suoi testi, dice Hofmannsthal, si ritrova “la vita interiore del paese”, i più remoti villaggi in contrapposizione con quello che il Giappone stava diventando con l’avvento dell’epoca Meiji (1868-1912). La forte spinta verso la modernizzazione stava modificando il setting cittadino ma anche il modo in cui lo spazio urbano veniva concepito e assumeva uno o l’altro significato. Tutto scaturito dalla volontà del governo di porsi “al pari” dei paesi europei e degli Stati Uniti per quanto concerneva sviluppo economico, attività commerciali, sviluppo militare e anche sociale; soprattutto il fine era quello di inserirsi al meglio all’interno del panorama internazionale che andava configurandosi proprio in quel periodo.
Lafcadio Hearn, come suggerito già dal suo nome, nacque a Leucade (Lefkada), in Grecia, ma poi visse in Irlanda, in Inghilterra e in Francia fino a che all’età di 19 anni fu mandato a vivere negli Stati Uniti. Lì intraprese la carriera giornalistica e lavorò come reporter per il Cincinnati Daily Enquirer prima e, in Louisiana, per il quotidiano Times Democrat poi. Si tenne quasi sempre lontano dalla cronaca, in particolare a New Orleans si occupò della cucina tradizionale e delle pratiche vudù della comunità creola del luogo.
Successivamente venne inviato come corrispondente nelle Indie Occidentali e poi, nel 1889, in Giappone, dove pare egli abbia trovato un nuovo sguardo, una nuova prospettiva e una nuova patria; un nuovo spirito e una ricchissima fonte d’ispirazione per i suoi testi.
L’esperienza di Lafcadio rappresenta in ogni caso la più dettagliata testimonianza dell’epoca Meiji e della spinta di rinnovamento che ha interessato l’arcipelago all’indomani della riaffermazione del potere imperiale.
I testi da lui scritti rappresentarono una sorta di finestra da cui europei e americani poterono fruire della tradizione, folkloristica e non solo, del Giappone, nonostante, come vedremo in seguito, si trattava comunque di una realtà filtrata attraverso gli occhi di Lafcadio: gli occhi di un uomo cresciuto in un contesto completamente diverso, messo a confronto con delle dinamiche che oggi ma, soprattutto alla fine del XIX secolo, apparivano molto distanti, come fossero i contorni di un mondo “altro”, borderline fra l’esotismo del Robinson Crusoe di Daniel Defoe e le atmosfere lugubri delle storie di Edgar Allan Poe.
Questo è particolarmente vero per Ombre giapponesi (Kaidan: Stories and Studies of Strange Things, 1904). La parola kaidan (怪談, lett. kai 怪 “strano, misterioso” e dan 談, “racconto”) ed il conseguente genere letterario videro la luce e la canonizzazione esattamente durante il periodo Tokugawa. In generale, si tratta di raccolte di storie di fantasmi, spiriti e mostri indigeni, caratteristici della cultura giapponese. Nel caso specifico di Lafcadio Hearn, è interessante guardare al modo in cui l’autore, non nativo
giapponese, riesca sapientemente a riprendere buona parte delle costellazioni metaforiche e simboliche che costituiscono la galassia di significati altri tutta peculiare della storia della letteratura giapponese. Basti pensare al motivo letterario del suonatore cieco di shamisen (utilizzato, per esempio, anche da Nagai Kafū) oppure lo stratagemma del mitate, cioè il suggerire la presenza di un elemento B (oggetto, persona, sensazione) che è assente nella narrazione attraverso un elemento A, che è invece presente.
In tal modo viene data voce ad un Giappone antico, a delle figure retoriche e dei personaggi che dall’alba della tradizione orale prima e della letteratura nipponica poi vengono trasmessi secolo dopo secolo. Ombre giapponesi è una vera e propria silloge, composta da 39 racconti, ognuno dei quali tocca temi che si rivelano, di solito verso la fine, di grande profondità: il fato, la conoscenza, l’amore, la predestinazione.

Spesso si ritrovano riferimenti storici, come nel racconto intitolato Mimi nashi Hōichi (lett. “Hōichi senza orecchie”) che si apre con la battaglia di Dan no ura (battaglia navale decisiva della guerra Genpei del 1185) e quindi con lo scontro storico fra il clan dei Taira (o Heike) e il clan dei Minamoto (o Genji). In questa ed in altre storie della stessa raccolta vengono citati diversi sutra buddhisti. Uno fra tutti lo Hannya Shin Kyō (in sanscrito, Prajñāpāramitā Hridaya Sūtra), vale a dire il sutra della Dottrina del Vuoto delle Forme, che spiega cioè il carattere irreale di tutti i fenomeni. Si così manifesta la tendenza alla spiritualità, la consapevolezza tutta giapponese dei “mondi altri”, dei noumeni, dei fantasmi che animano la terra, che proteggono le foreste, che si beffano degli esseri umani e si vendicano di loro, oppure se ne innamorano. Stilisticamente, le parole usate sono sapientemente scelte, strettamente collegate al paradigma culturale nipponico, a cominciare dal nome della sovrintendente del personale femminile della casa del daimyō, rōjō, al liuto tradizionale a quattro corde, il biwa, fino alle espressioni tipiche nate ed utilizzate nel momento di massimo potere dei daimyō quali ad esempio shinobi no go ryokō traducibile come “fare un augusto viaggio camuffato” cosa che i signori feudali praticavano spesso, per guerre e non solo.
Da tutti i racconti è possibile, come già accennato, trarne una morale, fra i più emblematici ne La fonte della giovinezza i protagonisti sono due anziani coniugi che vivono una vita frugale, il marito trova nel bosco una fonte d’acqua e dopo averne bevuto un sorso ritorna giovane. A questo punto torna dalla moglie la quale però avidamente ne beve così tanta da tornare neonata. E’ dunque chiaro in questo ed in altri testi lo spirito curioso di Lafcadio, che sembra voler mettere in evidenza, mutatis mutandis, il carattere antropologico, sovrapposto senza dubbio a quello giornalistico, delle sue raccolte e dei suoi reportage. Molte delle critiche che sono state mosse all’opera di Lafcadio Hearn, soprattutto post mortem, riguardano l’eccessiva “esotizzazione”. Molti critici sostennero cioè che l’autore avesse caricato oltre il limite il carattere esotico del Giappone ed inoltre il suo approccio venne da alcuni considerato come una specie di embrione di quello che poi verrà definito da Edward Said come “orientalismo”: un modo di rappresentare i paesi “orientali” tipico degli europei che in qualche modo, velatamente, afferma e ribadisce la superiorità dell’Europa, nonostante apparentemente non ci siano tracce del cosiddetto “giapponismo” nelle sue opere. Uno fra i meno benevoli nei confronti di Lafcadio Hearn sarà George Orwell, che invece lo accuserà di “trans-nazionalismo”, come se egli avesse creato fra il suo paese di origine e la società giapponese che lo accoglieva un legame fin troppo stretto, per cui i paradigmi
interpretativi andavano confondendosi a causa soprattutto della presunta scarsa consapevolezza di Lafcadio delle diversità sociali e culturali. Da funzionario di polizia coloniale e autore di Giorni birmani, George Orwell conosceva bene le tendenze eurocentriche dei colonizzatori e si dirà disgustato dal dominio britannico che non poteva, per sua struttura, prescindere dal razzismo.
Nonostante ciò gli scritti di Koizumi Yakumo, nome che poi Lafcadio Hearn assunse naturalizzandosi giapponese e sposando la discendente di un samurai locale, sono ancora oggi oggetto di studio e spunto di riflessione. A posteriori, ci dà innanzitutto l’idea di come allora era visto l’arcipelago giapponese dagli europei e, in secondo luogo, attingendo al kokoro, allo spirito atavico nipponico, fornisce, come da titolo del testo qui sopra citato, le “ombre” della ricchezza culturale autoctona, nata dunque già molti secoli prima dell’apertura del Giappone con gli Stati Uniti e l’Europa, la percezione “dall’interno” dei fasti che secondo diverse personalità della comunità intellettuale dell’epoca, come Natsume Sōseki o Nagai Kafū, il Giappone stava perdendo a causa del cieco e frenetico processo di modernizzazione.
Bibliografia
- Hearn L., Fatica O. (2018). Ombre giapponesi, Milano: Adelphi
- Thapar R. (2002). The Penguin history of Early India, perception of the past. India: Penguin books
- Follaco G. M. (2017) Modern Japanese Literature, critical insights. Grey house publishing
- Reischauer E. O., Sepa M. (2013). Storia del Giappone, dalle origini ai giorni nostri. Milano : Tascabili Bompiani
- Orwell G., Caracciolo G. (2005). Giorni in Birmania. Milano: Oscar Mondadori
Immagini
Copertina by: “Kohala Koheiji by Katsushika Hokusai (1760-1849), a traditional Japanese Ukyio-e style illustration of the Japanese legend of a ghost haunting people for revenge. Digitally enhanced from our own original edition.” by Free Public Domain Illustrations by rawpixel is licensed under CC BY 2.0
Immagine in articolo: “The Goblin Spider” by sjrankin is licensed under CC BY-NC 2.0