Umano e non-umano: figure di gatti nella narrativa di Natsume Sōseki e Murakami Haruki

di Alessandra Guerra

Tanti sono i titoli e le opere che il popolo giapponese ha dedicato alle figure dei gatti, con le quali sembra sentire un’affinità particolare. A volte sono i compagni di viaggio (e di vita) dei personaggi, altre i veri ne propri protagonisti, altre volte ancora diventano metafora e allegoria, il riflesso dei turbamenti non solo di chi dà vita a questi personaggi, ma anche di tutta la generazione di cui gli autori fanno parte.

I gatti entrarono per la prima volta nelle case giapponesi come animali domestici intorno al X secolo d. C., seguendo le usanze importate dal Continente. Sappiamo che furono inizialmente introdotti nelle case nobiliari e imperiali, e divennero oggetto di reverenza da parte di signori e servitù. Questa situazione si invertì durante il periodo Kamakura (1185 – 1333): apparvero, in questo periodo, nelle numerosissime fiabe e nei
racconti folkloristici figure come nekomata 猫又, mike neko 三毛猫 e maneki neko 招き猫, che rappresentano nella maggior parte dei casi esseri mostruosi o demoniaci (Olper, 1945). Le opere dedicate a questi personaggi, di grande popolarità fino al XX secolo, assumono spesso una sfumatura misteriosa, religiosa o anche comica. Le figure feline prendono anche sembianze umane, oppure utilizzano linguaggi umani per interagire con gli uomini.

La popolarità della figura del gatto in letteratura ha visto una continuità anche dopo l’avvento della modernizzazione, probabilmente grazie alla serializzazione durante il 1905 e il 1906 di uno dei più famosi romanzi della storia della letteratura giapponese, scritto da Natsume Sōseki (夏目漱石, 1867 – 1916) e che ne costituisce anche il suo esordio letterario, Io sono un gatto (Wagahai wa neko de aru 吾輩は猫である).
La narrazione si svolge dal punto di vista di un gatto, che racconta delle sue giornate passate a interagire con altri gatti o a commentare ciò che fanno gli umani intorno ad esso, in tono sarcastico e umoristico. Si riferisce spesso in particolar modo al signor Kushami (lett. signor Starnuto), con cui vive. Io sono un gatto è un romanzo particolare non solo per tono, impostazione e punto di vista della narrazione, ma anche perché è immerso nel periodo storico in cui fu scritto: probabilmente Sōseki intendeva, infatti, sollevare critiche riguardo il processo di modernizzazione nazionale che aveva coinvolto non solo l’industria, l’agricoltura, l’istruzione, ma anche la letteratura e in particolare il romanzo, che nella sua nuova versione andava ad annullare o a ridimensionare il ruolo della soggettività, preferendo l’aderenza alla verità, ai fatti e alla
concretezza, come fu dimostrato anche da filosofi e critici come Barthes, Benveniste e Hayden White (Fujii, 1989). Ricordiamo che il Giappone ha una lunga tradizione di generi che si basano sull’espressione della soggettività, come i diari (nikki 日記) e i “racconti del pennello” (zuihitsu 随筆), che non hanno conosciuto in tempi moderni la stessa diffusione che avevano in passato. È da notare anche che il romanzo non ha seguito, in Giappone, la stessa linea di sviluppo che ha avuto nel Vecchio Continente, dove i lettori hanno conosciuto prima un tipo di opera che si concentrava intorno alla soggettività, all’emotività e all’espressione dell’individuo, e dove solo successivamente vi è stata una rivalutazione della sfera interiore dei personaggi per dare spazio alla descrizione della realtà. In Giappone ciò si è ridotto ad un unico passaggio che ha portato ad una lunga teorizzazione e in seguito stesura dei primi romanzi: sono da menzionare in questo senso l’influenza di Tsubouchi Shōyō (坪内逍遥, 1859 – 1935), autore de L’essenza del romanzo (Shōsetsu shinzui 小説神髄, 1885) e del suo amico – allievo Futabatei Shimei (二葉亭四迷, 1864 – 1909), autore di quello che è considerato il primo romanzo giapponese, Ukigumo (Nuvole Fluttuanti 浮雲, 1887 – 1889). Nei vent’anni che separano la pubblicazione di queste prime due opere da quelle di Sōseki, il romanzo giapponese ha conosciuto un periodo di sperimentazione, in cui gli autori erano arrivati, in molti casi, a sopprimere l’espressione del sé. Con i suoi romanzi, Sōseki cercò di spingere i propri lettori e altri scrittori ad una riflessione sul ruolo della soggettività e dell’espressività, raccontando di individui che avevano perso in qualche modo la propria identità durante il periodo di transizione dal vecchio al nuovo Giappone.

In Io sono un gatto vi sono personaggi poco caratterizzati dal punto di vista formale: non si conoscono i loro nomi, la loro età, la loro provenienza, ma si viene messi a conoscenza di ciò che raccontano durante la narrazione, costituita per la maggior parte dalla descrizione della realtà attraverso i loro occhi, e dai commenti e giudizi che fanno su di essa. Gli occhi del gatto si rivolgono spesso al signor Kushami, ne descrive le abitudini, i modi di pensare, le varie interazioni con i suoi amici; allo stesso tempo conversa con altri gatti, cammina per il quartiere e parla dei propri stati d’animo, proprio come farebbe un umano, ma in maniera più umoristica, come se fosse intenzione dell’autore utilizzare il tono dei romanzi naturalistici attraverso la bocca di un gatto. Senza dubbio questa caratterizzazione umanizzata deriva anche dalla tradizione folkloristica, in cui esistevano diverse tipologie di gatti e creature feline che parlavano con gli esseri umani nella loro lingua, mentre la rappresentazione del mondo attraverso occhi non umani può costituire una critica verso il modo di descrivere quest’ultima attraverso i personaggi fin troppo obiettivi del genere naturalistico, predominante in quel periodo in Giappone1. L’utilizzo della figura del gatto può essere inteso come una critica nei confronti della predilezione dell’oggettività del mondo a discapito della soggettività umana. Come gli uomini senza identità di questi romanzi, anche il gatto non ha un nome, ed è addirittura la prima affermazione che troviamo nel romanzo2, affermazione che appare anche ironica, per il tono utilizzato, agli occhi dei
giapponesi. Il gatto utilizza la parola 吾輩 (wagahai, “io”) per parlare di sé, una versione colta di 私 (watashi, “io”) che viene usata solo dall’Imperatore. Utilizza inoltre la forma della copula である (dearu, “sono”), tipica del linguaggio accademico e giornalistico. Possiamo considerare Io sono un gatto e il suo protagonista felino, quindi, come un’opera in cui era predominante, secondo le parole di Etō Jun (江藤淳, 1932 – 1999), la
disgregazione e la decostruzione del sé, in giapponese jiko kaitai (自己解体), per criticare quella che avveniva, a volte intenzionalmente, a volte non consapevolmente, nel romanzo giapponese del periodo.

Io sono un gatto è un’opera estremamente famosa in patria, tanto da vedere la pubblicazione di sequel scritti da altri autori3. Oggi i gatti vengono rappresentati in libri, dipinti, film, serie televisive, anime e manga: basti pensare ai famosissimi Doraemon ドラえもん, protagonista dell’omonimo manga serializzato in Giappone dal 1969 al 1996, e Hello Kitty ハローキティ (Harō Kiti), personaggio di fantasia creato dall’azienda Sanrio, intorno al quale ruotano manga, anime, pubblicità e vari prodotti di merchandising. Per quanto riguarda il mondo della narrativa, solo negli ultimi anni vi è stata l’uscita di titoli come Se i gatti scomparissero dal mondo (in giapponese Sekai kara neko ga kieta nara 世界から猫が消えたなら) di Kawamura Genki, pubblicato in Giappone nel 2012 e divenuto subito un successo editoriale e cinematografico; Il gatto che voleva salvare i libri (in giapponese Hon wo mamorō to suru neko no hanashi 本を守ろうとする猫の話, 2017), di Natsukawa Sōsuke e Il gatto venuto dal cielo (in giapponese Neko no kyaku猫の客, 2009), di Takashi Hiraide. È ragionevole pensare che la popolarità del personaggio del gatto sia dovuta, in parte, al protagonista felino di Sōseki.

Vi è un altro autore giapponese che gode di notevole successo in patria e che è riuscito a diventare un caso editoriale anche all’estero, nella cui opera è spesso presente l’elemento animale o felino: Murakami Haruki (村上春樹, 1949). È difficile trovare romanzi o racconti dell’autore che non contengono personaggi animaleschi e antropomorfizzati. Già dalle sue prime opere, come Nel segno della pecora (Hitsuji wo meguru bōken 羊をめぐる冒険, 1982), passando per Kafka sulla spiaggia (Umibe no Kafuka 海辺のカフカ, 2002) fino ad Abbandonare un gatto (Neko wo suteru. Chichioya ni tsuite kataru toki 猫を棄てる。父親について語るとき, 2019), vi è un gran numero di riferimenti a gatti, bestie, animali, creature antropomorfizzate, e altrettanto grande è il numero di allegorie e metafore che questi personaggi rivestono all’interno della narrazione. In particolare, si può considerare La fine del mondo e il Paese delle meraviglie (Sekai no owari to hādo boirudo wandārando 世界の終わりとハードボイルド・ワンダーランド, 1985) uno dei romanzi in cui Murakami ha più utilizzato l’elemento allegorico legato agli animali. Si parla, ad esempio, della figura dell’elefante, simbolo religioso che rappresenta la mente umana e la coscienza, o dell’unicorno (Lai, 2007), di cui vi è addirittura una descrizione in termini mitologici in diverse culture. Ciò che colpisce di più l’attenzione del lettore è, però, la presenza di “bestie” nei capitoli dedicati a “La fine del mondo”: bestie che, si scoprirà in seguito, racchiudono in realtà i ricordi, le parti del cuore che il protagonista ha iniziato a perdere una volta entrato nella città, dove vengono recuperate dalle bestie e portate fuori dalla città. Queste ultime portano “il peso dell’identità che impone loro la città”, e quando muoiono viene loro tagliata la testa “perché lì dentro è contenuta tutta la loro identità” (p. 424).

Uno dei romanzi più conosciuti dell’autore è Kafka sulla spiaggia, in cui si ritrova, ancora una volta, grande uso di personaggi animali, ma soprattutto di gatti. Gatti che, come in Io sono un gatto, riescono a interagire con gli esseri umani e in particolare con Nakata, uno dei protagonisti dell’opera, che sembra essere l’unico al mondo a poter parlare con essi dopo uno strano incidente accaduto quando era bambino. Ad un certo punto, Nakata incontra Johnnie Walker, un noto assassino di gatti, che uccide su richiesta di quest’ultimo. Sembra esserci una precisa allegoria dietro questo evento: Johnnie Walker è il nome di un famoso whiskey scozzese, nome che viene scelto dall’assassino con lo scopo di diventare anch’egli un simbolo commerciale; l’uccisione dei gatti e l’omicidio del killer andrebbero a rappresentare le crudeltà e le insensatezze della guerra, dell’irrazionalità di rispondere alla violenza con altra violenza. In questo contesto, i gatti rappresenterebbero l’umanità intera, inghiottita da una catena di eventi che non riescono a controllare direttamente, perpetuata dalle decisioni degli Stati e dei governi che agiscono senza considerare il benessere dei cittadini (Lai, 2007). Un altro elemento da tenere in considerazione, in questo e anche in altri romanzi, è l’assegnazione dei nomi ai personaggi e ai protagonisti delle storie. Infatti, nelle prime opere, i narratori si riferiscono a sé stessi utilizzando il pronome 僕 (boku, “io”), ma mai il proprio nome personali. Inoltre, molti nomi si riferiscono a particolari caratteristiche o metafore dei personaggi, e non risultano convenzionali: lo stesso Tamura Kafka (田村カフカ), il protagonista di Kafka sulla spiaggia, non pronuncia mai il suo vero nome, e si presenta utilizzando quello del famoso scrittore ceco, con un chiaro riferimento alla poetica e al pensiero di quest’ultimo. È in pochi romanzi, come Norwegian Wood (Noruwei no mori ノルウェイの森, 1987), che Murakami assegna dei nomi considerati convenzionali (Strecher, 1999). Come in Io sono un gatto, anche in questo caso l’utilizzo dei nomi ricopre una funzione particolare, ovvero la delineazione di una identità spezzata e dispersa, che ha bisogno di essere ricostruita o che viene semplicemente descritta all’interno dei romanzi.

Anche in Murakami vi è quindi, come in Sōseki, un forte legame tra l’elemento animale e l’identità, e ciò si può spiegare, ancora una volta, partendo dal contesto storico in cui è nato e vissuto l’autore, di forte influenza per lo sviluppo della sua poetica. Murakami è infatti nato agli albori del secondo dopoguerra, in piena occupazione americana (iniziata nel 1945 e terminata nel 1952), ha vissuto il periodo dei disordini provocati dal rinnovamento del Trattato di mutua cooperazione e sicurezza tra Giappone e Stati Uniti
d’America del 1960, e le varie crisi economiche che ha attraversato il Paese fino ad oggi. Fa spesso riferimento agli orrori e ai traumi lasciati dalla guerra nella coscienza dei giapponesi, in maniera esplicita, come in Abbandonare un gatto, o anche implicita, quando sfrutta le caratteristiche del genere del realismo magico per rappresentare eventi, idee, azioni che avvengono nel mondo reale.

In conclusione, possiamo affermare che la figura del gatto è stata spesso utilizzata dagli scrittori giapponesi per descrivere i tormenti che hanno caratterizzato l’esistenza di intere generazioni, segnate dalle guerre, dalla modernizzazione, dalla globalizzazione. La decostruzione e la ricostruzione dell’identità e della soggettività sono state sapientemente descritte dalla penna di autori illustri, come Natsume Sōseki e Murakami Haruki, che sono riusciti a dar voce non solo al proprio senso di disagio interiore, ma soprattutto a quello del popolo a cui appartengono, anche attraverso l’utilizzo di figure allegoriche e metaforiche, e in particolare quelle dei gatti, che, abbiamo dimostrato, hanno una lunga tradizione di rappresentazioni nella letteratura giapponese.

Note

  1. Un anno dopo la serializzazione di Io sono un gatto è infatti apparso Il futon (蒲団, 1907) di Tayama Katai (田山花袋, 1872 – 1930), considerata una delle opere esponenti del naturalismo giapponese.
  2. 「吾輩は猫である。名前はまだ無い。」(Wagahai wa neko dearu. Namae wa mada nai), Sōseki, 1905.
  3. Si possono citare a tal proposito: Shakaishugi ni natta Sōseki no neko (Il gatto di Sōseki è diventato un socialista, 社会主義になった漱石の猫, 1919) di Endo Musui, Gansaku wagahai wa neko de aru (Contraffazione: io sono un gatto 贋作吾輩は猫である, 1949) di Uchida Hyakken e Wagahai wa neko dearu satsujin jiken (Il mistero dell’assassinio di ‘Io sono un gatto’「吾輩は猫である」殺人事件, 1999) di Okuizumi Hikaru (Kawana, 2010).

Bibliografia

  1. Fujii, J. A. (1989), “Contesting the Meiji Subject: Sōseki’s Neko Reconsidered”, Harvard Journal of Asiatic Studies, vol. 49, n. 2, pp. 553–574.
  2. Iwamoto, Y. (1993), “A Voice from Postmodern Japan: Haruki Murakami”, World Literature Today, vol. 67, n. 2, pp. 295–300.
  3. Kawana, S. (2010), “A Narrative Game of Cat and Mouse: Parody, Deception and Fictional Whodunit in Natsume Sōseki’s Wagahai wa neko dearu”, Journal of Modern Literature, vol. 33, n. 4, pp. 1–20.
  4. Lai, A. T. (2007), “Memory, Hybridity, and Creative Alliance in Haruki Murakami’s Fiction”, Mosaic: An Interdisciplinary Critical Journal, vol. 40, n. 1, pp. 163–179.
  5. Murakami, H. (1985), La fine del mondo e il paese delle meraviglie, trad. it. di Antonietta Pastore, Milano: Einaudi, 2013.
  6. Murakami, H. (2002), Kafka sulla spiaggia, trad. it. di Giorgio Amitrano, Milano: Einaudi, 2008.
  7. Opler, M. E. (1945), “Japanese Folks Concerning the Cat”, Journal of the Washington Academy of Sciences, vol. 35, n. 9, pp. 269 – 275.
  8. Strecher, M. C. (1999), “Magical Realism and the Search for Identity in the Fiction of Murakami Haruki”, Journal of Japanese Studies, vol. 25, n. 2, pp. 263–298.
  9. Tipton, E. K. (2008), Il Giappone moderno. Una storia politica e sociale, trad. it. di G. L. Giacone, Milano: Einaudi, 2011.

Sitografia

  1. Sōseki, N. (1905), Wagahai wa neko dearu, in Natsume Sōseki Zenshū, Tokyo: Chikuma Shobō, 1987, vol. 1.
    [Consultato il 31 ottobre 2021]. Disponibile da:
    https://www.aozora.gr.jp/cards/000148/files/789_14547.html
    夏目漱石、吾輩は猫である、筑摩書房

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