di Federico Del Sordo
Murata Sayaka si è fatta strada nel mondo della scrittura a partire dal 2003, presentando al pubblico giapponese e, successivamente al mondo intero, il suo talento. La sua è stata una vera e propria scalata verso il successo, confermato con diversi premi letterari, tra cui, il più recente Premio Akutagawa, ottenuto grazie al bestseller La ragazza del convenience store (Konbini Ningen コンビニ人間) del 2016, opera che ha venduto oltre 700.000 copie nel paese del Sol Levante.
Questo libro nasce come una parziale autobiografia dell’autrice, la quale, in giovane età, ha lavorato anch’essa presso uno dei konbini giapponesi, i famosi negozi giapponesi aperti 24/7. L’abilità della scrittrice le permette di fornirci un chiaro e lampante profilo della società giapponese contemporanea. Ma sarà davvero una società al passo con l’attuale idea di modernità? Attraverso la narrazione in prima persona di Keiko Furukura, Murata offre ai suoi lettori una vivida e spiazzante chiave di lettura delle scelte di vita della protagonista.

Keiko ci viene presentata sin dalla sua infanzia: una bambina diversa dalle altre, con una sensibilità distaccata, quasi deterministica, nei confronti degli eventi che accadono intorno a lei. Durante gli anni adolescenziali, in lei avviene una trasformazione quando diventa consapevole della sua condizione di diversità rispetto alla ‘norma’. Ella sperimenta una sorta di transizione psicosociale e, per la prima volta, si rende conto di star affrontando un momento di crisi: è conscia del fatto che la sua diversità è una ‘malattia personale’ e un ostacolo nel suo tentativo di apparire normale in una società uniformata. Inizialmente, l’unica cura esistente sembra essere l’autoisolamento sociale.
Un giorno, quasi per caso, Keiko si imbatte nello scheletro di uno nuovo konbini in costruzione, lo SmileMart: percepisce una curiosità magnetica, d’altronde, un lavoretto part-time alla sua giovane età è la normalità. L’inizio di questo nuovo impiego le consente di ristabilire un contatto, dopo tanto tempo, con le altre persone, ovvero i commessi del negozio. A questo punto, entra in gioco un elemento ricorrente in tutto il libro: il concetto di identità.
“Era come un cambiamento di pelle, una muta temporanea.”
Durante il primo giorno di lavoro, lei stessa vive una rinascita sociale grazie a questa rinnovata e momentanea identità, simbolo del suo primo, vero contatto con il mondo. In quell’istante, Keiko assapora una gratificazione esistenziale mai provata, capisce di aver trovato il suo posto nel mondo.
“Quello fu il primo giorno della mia nuova vita come “normale” componente degli ingranaggi della società.”
In un batter d’occhio trascorrono diciotto anni, le cose cambiano, i commessi del konbini si susseguono periodicamente, gli oggetti subiscono gli effetti dello scorrere del tempo, tranne Keiko, lei è immobile, statica nella sua condizione. La spiegazione a questo ce la fornisce la protagonista stessa in una sua riflessione: la ‘normalità’ tanto agognata è a disposizione in una comoda scatola di vetro, l’unica dimensione socialmente accettabile per sé stessa. Il microcosmo del konbini diventa la sua unica certezza; Keiko ogni mattina indossa l’abito della commessa perfetta. In questa lunga riflessione, la protagonista svaluta la sua natura di essere umano e si mercifica paragonandosi a una componente meccanica; pertanto, lei ‘funziona’ come una persona normale, non vive. È difficile comprendere chi sia la vera Keiko, sembra essere un essere senziente la cui fonte di sollievo si trova nell’emulare le espressioni facciali, i modi di parlare e i look dei suoi colleghi.
La protagonista è una donna, ormai matura, con un impiego part-time a contratto determinato e non ha un marito che la sostenga, di conseguenza, non ha uno status sociale effettivamente solido. Tematiche come questa emergono in occasione delle abituali chiacchierate con le amiche, poste su un piano opposto anni luce in confronto alla condizione di Keiko. Sono tutte donne sposate, alcune con impiego full-time, altre con figli e marito. La protagonista, durante i loro soliti discorsi, sente continuamente il peso delle loro conversazioni e la pressione causata da un matrimonio non presente, soprattutto quando si parla della sua sessualità e del suo lavoro nel konbini. A quest’ultimo è perennemente rivolto il suo pensiero: la musica del negozio che risuona nella sua testa durante il sonno e di prima mattina, gli scaffali delle bibite da ordinare in previsione della calca mattutina, la mano preziosa con la quale dà il resto ai clienti.
“Come vorrei poter spiccare il volo e tornare immediatamente nel mio konbini. Lì è tutto più semplice, l’unica cosa che conta è essere un membro della stessa squadra. Poco importa il genere sessuale, l’età e il luogo di nascita: siamo tutti uguali, indossiamo la stessa divisa.”
Keiko mostra una fedeltà ferrea nei confronti del konbini e della sua causa, tant’è che, agli occhi del lettore, sembra essere una sorta di setta religiosa con tutte le sue regole da manuale e pratiche (es. irasshaimase! Irasshaimase! Irasshaimase!).
Ad un certo punto della narrazione, un nuovo commesso entra, temporaneamente, a far parte dello staff dello SmileMart, un uomo di trentacinque anni di nome Shiraha, il quale mostra sin da subito un atteggiamento denigratorio, sprezzante e disinteressato nei confronti del konbini, della sua occupazione e del sistema sociale. Shiraha rappresenta l’ideale di uomo inetto all’interno della società: un uomo dall’aspetto trasandato, non realizzato professionalmente e senza una moglie o una famiglia a cui badare, un individuo socialmente inutile. Non si nota una certa somiglianza con la protagonista? Keiko lo osserva e lo analizza quasi incuriosita, mantenendo sempre un approccio indifferente. La sua curiosità si mette in moto quando chiede a Shiraha il motivo della sua scelta dietro al konbini. “Per trovare una donna!”, esclama lui. A seguito del suo licenziamento, attraverso le parole dell’uomo, emerge la sua frustrazione e delusione nei confronti di una società che vuole apparire moderna. Shiraha definisce la società preistorica, paragonandola più volte all’epoca Jōmon, quando la ragazza più carina del villaggio sposa l’uomo più forte e capace di proteggerla, colui che, assicurando la perpetuazione del DNA superiore, lascia che gli individui meno dotati e fortunati si consolino a vicenda. “La società moderna è una grande illusione!”, afferma Shiraha.
La protagonista ascolta le parole del suo, ormai, ex-collega e acquisisce consapevolezza riguardo la sua condizione incerta. Interessante è la connotazione che assume il konbini: viene paragonato ad un vero e proprio organismo vivente con tutte le sue componenti organiche. Keiko vive come un automa, anche se il suo corpo è soggetto alle leggi del tempo.
“Un giorno, quando sarò diventata un peso e metterò a rischio la normalità di questo microcosmo, riceverò un trattamento simile e si sbarazzeranno di me senza pensarci due volte. Un’altra cellula del negozio sarà rimpiazzata senza problemi. Anch’io con il passare degli anni mi ridurrò ad un ingranaggio inutile.”
Shiraha, dopo aver perso il lavoro e un tetto sotto il quale vivere, incontra Keiko per caso, la quale scorge la sofferenza dell’uomo, ormai sovrastato dal peso delle convenzioni sociali che gravano su di lui quotidianamente. Keiko subisce passivamente lo sfogo di Shiraha, stanco del fittizio individualismo che la società finge di perpetrare; la protagonista viene criticata per la sua cecità, nonostante non voglia amalgamarsi e adattarsi a un ordine prestabilito dal sistema. A questo punto succede qualcosa di interessante: Keiko, con la sua aria imperturbabile, propone a Shiraha un matrimonio, compromesso ottimale per migliorare la situazione sociale di entrambi e ottenere anche dei vantaggi. L’uomo, incredulo, viene a conoscenza della strategia di sopravvivenza della protagonista. Keiko gira le sue carte proponendo il suo modello per vivere in maniera indisturbata: occorre camuffarsi, interpretare il ruolo di un essere fittizio, una “persona normale” uguale a tutte le altre; bisogna recitare e starsene buoni. L’unica maschera sociale che Keiko può indossare è quella del konbini. Il punto di vista della donna potrebbe sembrare ambiguo perché, da una parte, è sovversiva nei confronti del sistema, dall’altra, ricorre al suo personale escamotage.
“Tocca affrontare il mondo di petto e sacrificarsi, perché solo così è possibile conquistare una libertà almeno parziale. Partecipare alla comunità per essere liberi dentro: capisci cosa intendo?”
Keiko sottolinea la necessità di un sacrificio indispensabile, ovvero, vivere amalgamandosi con la comunità. Per rimanere fedeli a sé stessi e alla propria identità, è essenziale vivere senza pretese, condurre un’esistenza ai margini, dove non esiste, purtroppo, nessuna privacy.
I due giungono a un accordo, Shiraha va a vivere da Keiko e viene a crearsi una specie di alleanza mirata all’aiuto e al supporto reciproco, preservando, allo stesso tempo, i propri interessi. Da qui in poi, qualcosa intorno a Keiko cambia: la sorella Asami si dimostra entusiasta di questa svolta nella vita della sorella e le amiche non la considerano più come una zitella e reietta della società. In questa nuova situazione, Shiraha, però, sceglie la strada dell’isolamento sociale per salvaguardarsi, quindi, si nasconde in casa di Keiko. Improvvisamente, succede qualcosa di inaspettato. Si attua la vendetta personale dell’uomo, il quale diventa il parassita della protagonista. Degno di attenzione è il rovesciamento o l’inversione sociale che l’autrice descrive: Shiraha si trasforma nella donna senza lavoro, dedita alla casa e mantenuta, mentre Keiko diventa l’uomo su cui dipende l’equilibrio familiare ed economico.
“Vedi, io ho sempre sognato di vendicarmi. Ho sempre voluto farla pagare a tutte quelle donne che si sentono autorizzate a vivere come parassiti schifosi solo in virtù del loro sesso. Come? È semplice: diventando io stesso un parassita, uno di quelli della peggior specie.”
Successivamente, anche l’atmosfera all’interno del konbini cambia. Una volta appurata l’identità del compagno di Keiko, i lodevoli commessi del negozio cambiano approccio nei confronti della protagonista, diventando invadenti e poco rispettosi. La donna inizia a sentirsi perseguitata e, inaspettatamente, comprende la crudeltà dei suoi colleghi quando si rivolgono indirettamente a Shiraha, giudicandolo ed etichettandolo come un fardello per la società. Keiko, la quale contava unicamente sul rapporto umano che aveva instaurato con i suoi colleghi, prova una costante sensazione di solitudine. La tensione sale quando la sorella Asami comprende la realtà dei fatti dietro la strategia di Keiko e, esasperata, perde qualsiasi speranza in una eventuale “guarigione” della sorella, la quale, al contrario, si mostra sempre con una quasi totale indifferenza.
Procedendo nella narrazione, si viene a scoprire che Shiraha, a causa della sua condizione, si è indebitato pesantemente con la sua famiglia, e questo, poi, si rivelerà essere un altro motivo dietro la scelta di reclusione. Senza preavviso, entra in scena la cognata dell’uomo, che, portavoce della sua famiglia, lo ripudia ufficialmente e lo costringe a firmare un documento che lo impegna legalmente a restituire il debito contratto. Murata Sayaka fornisce uno spaccato della società giapponese, attraverso la schiettezza delle parole della cognata di Shiraha, la quale consiglia vivamente a Keiko di sposarsi o trovare un lavoro fisso, abbandonando quell’inutile feccia di finto compagno. Di contrasto, l’uomo si pone come il salvatore di Keiko, colui che l’ha tolta dalla sua misera e solitaria condizione di donna.
“Fino a poco fa i mille suoni del konbini riecheggiavano soavi in fondo alla mia anima. Ma ora non ci sono più, tutto tace.”
In men che non si dica, arriva l’ultimo giorno di lavoro di Keiko e ciò che incontra è l’amara consapevolezza di non aver lasciato nessun retaggio nel suo amato konbini e ai suoi abitanti. La sua casella è stata semplicemente riempita, non esiste nessun vuoto. Così, la quotidianità di Keiko si sgretola progressivamente, la protagonista si sente un’esclusa, tagliata fuori da tutto il suo mondo, quello rappresentato dal konbini. Lo stato di smarrimento e vegetazione in cui entra la donna si dirada quando Shiraha si cimenta nell’attenta, e quasi miracolosa, ricerca di un nuovo impiego per Keiko, organizzandole un colloquio lavorativo. Durante il tragitto di andata, i due sostano in un konbini e Shiraha si reca nella toilette per sbrigare i suoi bisogni fisiologici. In questo frangente, nel momento in cui Keiko mette piede in questo nuovo konbini, qualcosa si desta dentro di lei. Il saluto, irasshaimase, pronunciato dalla commessa del negozio si trasforma in una parola magica, in un incantesimo che catapulta Keiko nel meraviglioso mondo del konbini.
“D’un tratto sento rinascere in me una dolce melodia, è la musica del konbini. Una miriade di suoni carichi di significato echeggia in tutti gli angoli del negozio. Vibrazioni che mi parlano attraverso ogni singola cellula e risuonano in me come pura musica.”
“La voce del konbini risuona senza sosta dentro di me. Io sono nata per ascoltarla.”
Automaticamente, Keiko agisce come una marionetta controllata dal suo inconscio, mossa attraverso gesti schematici e abitudinari: rivolge un caloroso irasshaimase ad una cliente, ricolloca negli scaffali in basso i prodotti meno venduti, indica un badge immaginario sul suo petto alla commessa e immagina tutte le modifiche che andrebbero fatte all’interno del negozio. Il konbini stesso viene antropomorfizzato dalla protagonista, la quale riesce a captare i suoi bisogni primari e a sentire la sua voce. Il climax viene raggiunto quando, sbigottito dalla scena, Shiraha richiama Keiko, esortandola a comportarsi normalmente, e la protagonista fornisce una risposta spiazzante.
“Finalmente ho capito. Prima ancora di un essere umano sono una commessa del konbini. Sarò anche una persona contorta, anormale, incapace di vivere nella società e condannata a morire in un angolo della strada, ma non posso sottrarmi al mio destino. Il mio corpo e la mia vita appartengono al mondo del konbini, ora e per sempre.”
La scrittrice, così, scoperchia la psiche di Keiko e rivela al lettore la verità assoluta della protagonista. Shiraha, nel frattempo, inorridito dalla folgorazione della donna, la abbandona al suo fato. In queste ultime pagine, risulta evidente, come non mai, questo legame indissolubile con il convenience store, un legame così forte che spinge Keiko a mettere al primo posto il suo lavoro, anzi il suo destino, non la sua umanità. Lei stessa finisce per definirsi non umana, si identifica in un’altra specie, quella dei
“commessi del konbini”.
In questo libro, dove la parola ‘normalità’ aleggia in ogni pagina, Murata Sayaka permette alla protagonista di trovare la sua libertà ed essere chi vuole, di abbandonare quel senso di inadeguatezza e anomalia, a prescindere da quello che la società giapponese si aspetterebbe da lei. Keiko rifiuta l’omologazione ai prefissati canoni sociali, e alla fine, si lascia trasportare dalla sua voce interiore, la quale risuona all’unisono con la melodia del konbini.
Copertina by: “Matsuya Glow” by AJ Kelman is licensed under CC BY 2.0