di Antonella Gasdia (Sezione Corea)
“Con età e genere al centro, questa società era governata da una rigida gerarchia tra tutti i gruppi di persone e si credeva che aderire a questa relazione gerarchica ed osservarla fosse l’unico mezzo per mantenere l’armonia all’interno della società e dell’universo.”
(Chong, 2008, p. 59)
La Corea del Sud è, indubbiamente, uno dei Paesi dell’Asia orientale ad aver intrapreso il più sbalorditivo processo di sviluppo, frutto di intensi sacrifici richiesti ad un popolo da parte di una democrazia, la cui linea politica si incentrò fondamentalmente su una rapida industrializzazione. Sebbene quest’ultima sia stata perseguita, tanto da valerle l’appellativo di “miracolo del Fiume Han”, quanto si è davvero evoluta la società sudcoreana?
Il 1953 si designa come l’anno in cui fu introdotto il cosiddetto sistema hoju 호주제 (戶主制), un registro delle famiglie il cui significato indica proprio quello di “capofamiglia”, conferendogli una natura patriarcale in linea con la tradizione confuciana su cui la società ha sempre fissato le proprie salde radici. La sua influenza sulla traccia che ogni famiglia avrebbe dovuto seguire per costituire un ritratto tradizionale, ha fatto sì che gli uomini ricoprissero, da sempre, ruoli privilegiati e di responsabilità, come nel caso dei padri al vertice e dei figli maschi al seguito, mentre alle mogli e alle figlie femmine è sempre spettato il ruolo di mere custodi del focolare o devote figure indissolubilmente legate alla pietà filiale. Seguendo questa visione, la famiglia consisteva, dunque, in una piramide gerarchica in cui agli uomini era consentito ereditare il ruolo di capostipite e perpetrarlo, mentre alle donne non restava altro che la subordinazione come costante in ogni fase della propria vita: prima verso il proprio progenitore, poi verso il proprio marito ed infine nei confronti del proprio figlio, in particolare se maschio. È da questa concezione tradizionale che si sono originati tanto la crepa che ha diviso la società contemporanea su questioni legate alla parità di genere, quanto il turbolento dibattito che ha acceso le voci di numerose donne per cui è tuttora arduo rivestire posizioni al di fuori del contesto domestico. Il dissenso incalzante a seguito della presa di coscienza del bisogno di un cambiamento, confluì in quello che si può definire come un successo il 1 Gennaio 2008, quando il sistema hoju venne definitivamente abolito anche per opera della cooperazione tra il Ministero della Parità di Genere e della Famiglia, anche noto come Yŏsŏnggajokpu 여성가족부 (女性家族部) ed organizzazioni di natura non governativa quale la Korea Women’s Associations United (Koh, 2008).

Le organizzazioni femminili costituirono, di fatto, il perno di numerosi cambiamenti fondamentali avvenuti antecedentemente all’abolizione del sistema hoju e da considerare come i semi da cui germogliarono nuove possibilità per le donne sudcoreane del domani: se nel corso degli anni ’70 ci si concentrò su questioni legate al miglioramento delle condizioni di lavoro, cavalcando quella che fu l’onda del processo di modernizzazione ed industrializzazione che non lasciò indietro la manodopera femminile, furono gli anni ’80 a determinare l’onda d’urto più dirompente nella travagliata storia del percorso verso l’effettivo sorgere del ritratto della donna coreana contemporanea. In questo periodo, infatti, furono varate importanti leggi, fra cui una nuova disposizione sulla parità di genere introdotta nella Costituzione nel 1987, anno in cui un altro evento segnò un passo essenziale verso il cambiamento: la legge sulle pari opportunità nel mondo del lavoro, anche nota come EEOA (Equal Employment Opportunity Act) (Lee A., Chin M., 2007, pp. 1210-1211). Negli anni a seguire, la cooperazione con il governo, da cui scaturì una legge per prevenire le violenze sessuali ed altri importanti avvenimenti, rimarcarono con fermezza quanto le donne fossero, ormai, inarrestabili nel loro voler determinare il proprio ruolo in una società che sembrava aver posto solo per gli uomini.

“Gli obiettivi generali delle organizzazioni femminili coreane durante gli anni ’90 e negli anni a seguire si basavano sul promuovere un movimento di riforma legislativa, raggiungere la parità di genere modificando la coscienza ed i comportamenti pubblici ed essere coinvolte nelle attività della comunità locale, nell’assistenza e nelle questioni ambientali.”
(Lee A., Chin M., 2007, p. 1211)
Sulla scia della linea temporale associata all’evoluzione e alle lotte delle organizzazioni femminili, agli enormi stravolgimenti e alla nascita dei primi movimenti femministi, il punto d’incontro tra passato e presente sembra ritrovarsi in un romanzo del 2016, l’ormai celebre e discusso Kim Chiyŏng, nata nel 1982 (82-nyŏnsaeng Kim Chiyŏng, “82 년생 김지영”) dell’autrice Cho Namju, il cui successo è attribuibile tanto alla sua sprezzante impostazione critica nei confronti della società sudcoreana, quanto alla centralità del ruolo delle giovani donne, prigioniere delle contraddizioni che la contraddistinguono e di stereotipi ancora implacabilmente irremovibili, costrutti sociali che non sembrano essersi sradicati nonostante le numerose battaglie e l’apparente progresso. Il lettore si ritrova immerso nel vissuto della protagonista, una giovane madre oltre la trentina, alle prese non solo con il classico e tutt’ora predominante ordine gerarchico di stampo patriarcale, ma anche con le dinamiche discriminatorie del neoliberalismo, sgomitando tra i suoi imperativi sul lavoro e quello che dovrebbe essere un ruolo imprescindibile nella sfera domestica. Schiacciata dal peso del giudizio della famiglia, del marito e della società come la Yong-hye de La vegetariana di Han Kang, Chiyŏng non cerca, a differenza sua, la liberazione dalle imposizioni nella trasmutazione in essere vegetale, bensì lascia alla sua rabbia e frustrazione la concessione di pervaderla e di espandersi, con la stessa forza dirompente delle onde del mare in tempesta, travolgendo gli uomini della sua vita, compreso suo marito. Se l’ambiente in cui la protagonista viene ritratta è spesso quello delle “stanze chiuse”, ossia luoghi come il focolare, la cucina e tutti quegli angoli casalinghi in cui una donna dovrebbe essere confinata, essi si offrono, tuttavia, da pretesto per un’analisi di quegli aspetti tradizionali su cui la società sudcoreana appare irremovibile, nonostante si muova vorticosamente per rincorrere la modernità, venendo ammirata in tutto il mondo per la sua tecnologia avanzata e per la propria cultura pop che ha accentuato il suo processo di sviluppo e notorietà in Occidente. Questa progressiva crescita, tuttavia, non sembra volersi estendere alle radici di una mentalità forse ancora troppo ancorata al passato, come dimostra la stessa lingua coreana nel suo voler sottolineare un retaggio patriarcale tuttora solido:

“L’eredità patriarcale della Corea è radicata nella lingua coreana usata ancora oggi per riferirsi ai membri della famiglia. La famiglia del padre, ad esempio, viene chiamata ch’inka (letteralmente “famiglia stretta”), in contrasto con la famiglia della moglie, che viene chiamata oeka (che significa “famiglia esterna”). Una moglie può ancora essere chiamata ansaram o chipsaram (letteralmente, “persona interna” o “persona della casa”) per denotare il proprio ruolo tradizionale nella sfera domestica.”
(Yoon, 2020, p. 49)
Il romanzo di Cho Namju non rappresenta solo un viaggio esplorativo all’interno della vita di una giovane donna sudcoreana che si ritrova a dover affrontare i demoni della tradizione nonostante viva in un’epoca ormai all’avanguardia, ma anche una narrativa che ingloba in sé il percorso di intere generazioni di donne a partire dai primi mutamenti iniziati negli anni ’80. Nulla è casuale all’interno di quest’opera, a partire dal titolo e dalla scelta del nome della protagonista: l’anno di nascita di Chiyŏng la posiziona in uno specifico arco temporale in cui la modernizzazione degli anni ‘80 si intersecò con la crisi finanziaria del 1997 e con la ventata di neoliberalismo coreano, tutti eventi che hanno segnato il suo avanzare nell’età adulta. Quanto alla scelta del suo nome, essa è riconducibile al suo essere ampiamente diffuso proprio nel 1982, il che rimarca una presa di coscienza in senso femminista che non si limita al mero personaggio fittizio, ma si dispiega fino ad inglobare, più in generale, tutte le donne sudcoreane ritratte da Cho Namju negli sprazzi della loro quotidianità.
A rendere il romanzo un vero e proprio “documentario sociologico” sono i sacrifici non solo di Chiyŏng, ma anche di sua madre, costretta a rinunciare al proprio sogno di diventare insegnante, attraverso cui ci si affaccia su quello che fu un destino comune alla stragrande maggioranza delle donne vissute nella sua stessa epoca, in cui oltre alla sola possibilità di rivestire il ruolo di madri e mogli, vi era una pratica usuale: quella dell’aborto della terza figlia femmina nella speranza di dare alla luce un erede maschio.
Tra le righe, a tratti intrise di risentimento, in cui si chiudono le porte ad un qualsivoglia dialogo con gli uomini, la denuncia verso il retaggio patriarcale, dipinto in tutta la sua natura repressiva, restrittiva ed inconsistente (Yoon, 2020, p. 56), sembra confluire verso una direzione che vi si oppone attraverso il personaggio di Taehyŏn, marito di Chiyŏng. Nonostante tutto, infatti, egli sembra svincolarsi dalle catene del patriarcato, mostrandosi di supporto, premuroso ed amorevole nei confronti di sua moglie e abbattendo alcuni stereotipi con il suo essere collaborativo nelle faccende domestiche e mostrandosi anche ben disposto a non forzarla ad avere figli. Ciononostante, il messaggio che si vuole propagare attraverso i pensieri inconsci di Chiyŏng, è, in realtà, una volontà di dimostrare che “uomini e donne siano entrambi prigionieri della contraddizione dei regimi culturali che li vogliono in competizione” (Yoon, 2020, p. 57).
“Il risentimento di Chiyŏng contro il privilegio maschile nella società patriarcale trascura le pressioni esercitate sugli uomini affinché adempiscano ai loro ruoli di capifamiglia […] Sebbene possa essere difficile conciliare questi aspetti contraddittori nel suo atteggiamento verso il patriarcato, ciò rivela anche come Chiyŏng sia “chiusa” nella sfera maschile, piuttosto che articolare un punto di resistenza esterno ad essa.”
(Yoon, 2020, p. 57)
Ciò che, dunque, emerge attraverso le poche ma intense pagine di quello che solo superficialmente può definirsi come un semplice romanzo contemporaneo, è che il ritratto progressista con cui spesso si designa la società coreana, fatta di tecnologie avanzate e sfavillanti palazzi dell’architettura moderna, potrebbe, in realtà, celare delle ombre. È proprio fra quegli angoli nascosti e trascurati che si fanno sempre più forti le voci delle donne ormai coscienti e consapevoli delle proprie possibilità in un mondo che si muove sempre più vorticosamente ed in cui non c’è più spazio per le distinzioni nette di un passato troppo lontano.
BIBLIOGRAFIA
– Cho Namju 조남주. 82-nyŏnsaeng Kim Chiyŏng. 82년생 김지영 [Kim Chiyŏng, Born in 1982]. Sŏul: Minŭmsa, [2016] Tradotto da Jamie Chang (2018)
– Chong, Kelly H. (2008) Deliverance and Submission: Evangelical Women and the Negotiation of Patriarchy in South Korea. Cambridge, Harvard University Asia Center
– Jung H. (2021) Kim Chiyŏng Revisited. Journal of Asian Sociology (Marzo 2021), Vol. 50, n. 1, pp. 203-246. Institute for Social Development and Policy Research (ISDPR)
– Koh E. (2008) Gender Issues and Confucian Scriptures: Is Confucianism Incompatible with Gender Equality in South Korea? in Bullettin of the School of Oriental and African Studies, Università di Londra (2008), Vol. 71, n. 2, Scriptures and Modernity: A Tribute to Professor John Wansbrough (2008), pp. 345-362. Cambridge University Press per conto di School of Oriental and African Studies
– Lee A., Chin M. (2007) The Women’s Movement in South Korea. Social Science Quarterly (Dicembre 2007), Vol. 88, n. 5, Special Issue on Women in Global Society, pp. 1205-1226. Wiley
– Yoon S. (2020) Between Patriarchy and Neoliberalism: Cho Namju’s 82-nyŏnsaeng Kim Chiyŏng. Acta Koreana, Vol. 23, n. 1 (Giugno 2020), pp. 45-64

Antonella Gasdia
Laureata presso l’Università di Roma “La Sapienza” nel percorso triennale di Lingue e Civiltà Orientali, frequenta attualmente il percorso magistrale focalizzandosi sulla lingua e sulla cultura coreana ed ampliando campi che vanno dalla letteratura alla filologia. Appassionata di Corea e di scrittura, unisce questi interessi scrivendo per la rivista online dell’Istituto Culturale Coreano. I suoi campi di ricerca ed approfondimento si incentrano prevalentemente sulla letteratura e sulla cultura coreana, ma spaziano su altri ambiti quali la traduzione, il cinema e la musica. In futuro, spera di poter insegnare letteratura coreana all’università o realizzare il sogno di diventare reporter in Corea.
Copertina: https://flic.kr/p/ukNDge