di Gabriella Corigliano (Contributo esterno Corea)
Nam June Paik, unanimemente riconosciuto dalla critica come padre della videoarte, costituisce forse una delle figure artistiche più poliedriche e interessanti della seconda metà del ‘900. Artista irriverente, geniale, fluido, la sua produzione affronta una vasta gamma di tematiche attraverso un linguaggio espressivo sempre originale ed innovativo, e si pone come scopo precipuo la realizzazione di un ponte tra la tecnologia occidentale e la filosofia orientale, avvicinando due culture apparentemente lontane; da una parte, infatti, Paik decide di sondare tutte le modalità di interazione col pubblico che le nuove tecnologie offrono, dall’altra l’artista riprende elementi della cultura orientale rielaborandoli e rendendoli comprensivi ad un pubblico sempre più globalizzato.

Nam June Paik nasce a Seoul nel 1932, sotto piena dominazione giapponese, in una Corea che sta cambiando velocemente il proprio volto a seguito della fine dell’isolazionismo che aveva caratterizzato la penisola fino agli anni ‘70 dell’800, e la sua primissima formazione è estremamente influenzata dalla politica di colonizzazione nipponica. La famiglia Paik è borghese e benestante. Il nonno, Paik Yun Su gestisce da tempo la compagnia tessile Taichung, che si occupa di vendere tessuti cinesi in Corea. Nam June Paik, il più giovane di cinque figli, frequenta la Kyunggi High School e prende lezioni private di piano, ricevendo la migliore educazione in stile giapponese possibile al tempo. Il padre di Nam June Paik, Paik Nak Seung, laureatosi in legge all’Università Meiji di Tokyo, prende le redini del business familiare e amplia la compagnia.
Secondo alcune fonti, tra le più autorevoli si citi Yong Woo Lee, uno dei massimi studiosi di Nam June Paik, e alcune testimonianze dello stesso artista affidate al testo The Electronic Super Highway: Travels with Nam June Paik del 1997, durante il periodo di dominazione il padre di Paik è un chinilpa, termine coreano con una connotazione spiccatamente dispregiativa che indica un coreano filo-giapponese o collaborazionista. Nel contesto del dopoguerra, i chinilpa sono fortemente additati dalla società coreana come traditori della patria. Il padre contribuisce all’economia di Seoul in modo notevole, diventando uno dei primi CEO, figure fondamentali dell’economia coreana dalla seconda metà del ‘900 in poi, e arrivando ad avere il monopolio sulle aree di Jongno 5-ga e Dongdaemun. Anche in seguito alla Liberazione, la famiglia Paik preserva la propria condizione di benessere nonostante il padre venga arrestato nel 1948 in quanto collaboratore, per poi essere rilasciato 40 giorni dopo. Circa la complessa situazione dei chinilpa nel dopoguerra, Nam June Paik sottolinea come crescere “in una famiglia molto corrotta in un periodo molto confusionario” gli abbia insegnato a sopravvivere -e a sopravvivere molto bene: “In ogni biografia, sia essa quella di un politico o di un artista, il profilo psicologico dell’infanzia è quello importante. In questo senso, crescendo in una famiglia molto corrotta in un periodo molto confuso (1932-1950), ho imparato a sopravvivere e a sopravvivere bene”1(Yong Woo Lee, 1995: 13).
Al momento dello scoppio della Guerra di Corea nel 1950, la famiglia di Nam June Paik si sposta prima a Hong Kong, e in seguito a Tokyo, per un breve periodo a Kobe, in una locanda, e successivamente in una casa in stile occidentale a Kamakura, luogo dove è situata la monumentale statua del Daibutsu, il Grande Buddha, che la famiglia di Paik visita spesso, elemento che probabilmente influenzerà la ripresa dell’iconografia buddhista nelle sue opere. Qui Nam June Paik cresce in un ambiente familiare cosmopolita e aperto alle nuove invenzioni tecnologiche. Nel 1954 infatti la famiglia Paik compra il primo televisore di tutto il vicinato, una vera e propria attrazione. È in questo contesto che Nam June si avvicina all’arte e alla tecnologia, due elementi che riuscirà ad unire in una sintesi perfetta. Nel 1956 Paik si laurea in estetica all’Università di Tokyo, con una tesi sul compositore Arnold Schönberg, e un anno dopo si trasferisce in Germania, dove frequenta l’Università di Monaco e di Colonia e il Conservatorio di musica di Friburgo. Da questo primo profilo d’autore si evince facilmente quanto la formazione dell’artista sia stata complessa. Dal trasferimento di Paik in Giappone a soli 17 anni scaturirà quel forte nomadismo che caratterizzerà sempre l’artista e che lo porterà a spostarsi continuamente tra USA, Giappone, Corea, Italia e Germania, incarnando perfettamente la figura del cosmopolita che vive in una società sempre più globalizzata. Ed è proprio in Germania che, dopo aver incontrato John Cage e George Maciunas, ha inizio per Paik un nuovo capitolo della sua vita: il movimento Fluxus.
La comunità Fluxus, fondata da George Maciunas, nasce tra il 1961 e il 1962, riprendendo l’omonimo termine latino che significa “flusso”. Il nome incarna in sé i principi fondamentali del collettivo: l’idea che l’arte sia in continuo movimento, senza forma o luogo, completamente smaterializzata, ibrida, interdisciplinare. L’incontro con il movimento Fluxus è fondamentale: sancisce il punto di svolta in cui l’artista inizia ad intraprendere una strada anarchica e sperimentale, dopo un periodo in cui, tra Seoul, Tokyo e Monaco, si era dedicato ad uno studio più convenzionale della musica. Il movimento Fluxus individua nei mass media la parte negativa della cultura del periodo; Nam June Paik tuttavia non li aberra, anzi, li sfrutta per attuare una critica nei confronti di una società sempre più assuefatta al consumismo dell’immagine proprio attraverso il mezzo che l’ha resa tale: la TV. Vi è un insito ottimismo nella narrativa di Paik, un messaggio positivo lanciato all’umanità per stimolarla a comprendere le infinite possibilità della tecnologia se utilizzata in modo adeguato.
Le potenzialità di una comunicazione su scala globale sono individuate sin da subito da Nam June Paik, così come i pericoli insiti all’interno del nuovo mezzo tecnologico: l’assuefazione che rende lo spettatore passivo davanti allo schermo e incapace di recepire coscientemente i messaggi che gli vengono lanciati. Un altro punto focale è la stereotipizzazione dell’arte vincolata sempre di più al mondo del mercato. È per questo che la prima forma d’arte intrapresa da Nam June Paik è l’azione: caratterizzata dalla precarietà, nessuna performance può essere acquistata o musealizzata, è relegata al tempo specifico in cui viene realizzata, tutt’al più può essere documentata attraverso il mezzo fotografico o filmografico, ma viene pensata specificatamente per essere istantanea ed effimera, priva della produzione di un oggetto fisico al quale possa essere attribuito un valore commerciale. Possiamo notare una tendenza spiccatamente anticapitalista in questa posizione, che poi ritornerà nell’arco di tutta la produzione artistica di Nam June Paik, attraverso un’acuta critica a quella società che risponde a precise logiche di mercato.

All’altezza del 1964 si assiste ad un calo di coesione all’interno di Fluxus che, tuttavia, aveva sempre avuto la caratteristica di non presentarsi come un vero e proprio movimento costituito da artisti con intenti e ideali condivisi, bensì come momento spontaneo di incontro e confronto tra varie personalità individuali. La storia della video-arte ha ufficialmente inizio il 4 ottobre 1965, a New York, quando Nam June Paik, con in mano la sua prima Sony port-pack, acquistata proprio quel giorno al Liberty Shop di Manhattan, sta tornando a casa e rimane bloccato nel traffico a causa della visita del Papa. Riprende la scena e il pomeriggio stesso mostra i venti minuti di videotape ai suoi amici artisti, al Café a Go-Go in Greenwich Village. “Così afferma almeno la versione tramandata da un racconto metropolitano che travalica però la leggenda, se si riversa nelle più autorevoli e omologanti pagine della saggistica e della storia del video, come è già ripetutamente avvenuto”. (Cabutti, 2002: 97).
La produzione artistica di Paik da questo momento in poi verterà sempre di più sullo studio dei mass media e sul loro potere di distorsione della realtà, con riferimenti assidui, però, al mondo spirituale orientale. Celebre è l’opera TV Buddha, nata dalla geniale idea di posizionare la statua di un Buddha davanti ad un televisore: la situazione che viene così a crearsi è talmente paradossale da stimolare nello spettatore una profonda riflessione sulla nostra società. La prima versione di quest’opera viene creata per la Galleria Bonino a New York nel 1974, poi seguita da una serie con piccole varianti. La giustapposizione tra la tecnologia caratterizzante la cultura occidentale e la religione ancorata ai valori tradizionali della cultura orientale creano in quest’opera un contrasto evidente. Nella prima versione il Buddha è raffigurato con le mani nel mudra della meditazione e lo schermo davanti al suo volto restituisce la sua immagine, costituendo un loop infinito, un circuito chiuso. Walter Smith pone l’accento sull’aneddoto secondo il quale Paik avrebbe creato l’opera in maniera totalmente spontanea, per riempire una parete vuota alla Galleria Bonino di New York durante una sua personale (Park, 2015:213), alimentando in tal modo l’analogia con la filosofia zen: l’intuizione caratterizza l’estetica zen, e viene utilizzata sistematicamente nelle opere di Paik. Il Buddhismo zen e lo sciamanesimo (unico culto autoctono della Corea) diventano dei veri e propri linguaggi espressivi nella produzione “paikiana”.
Nel vivisezionare la società a lui contemporanea, l’artista denuncia un certo consumismo dell’immagine che ad oggi, con lo sviluppo dei social media, dilaga in maniera ancora più capillare, rendendo la produzione paikiana estremamente attuale. In merito alle politiche di rappresentazione del tipo umano adottate dalla TV, l’artista afferma: “Le persone spendono così tanti soldi per rendere belle le persone non belle, o le persone belle di plastica”2 (Paik, 1975). Questo paradosso è largamente indagato da Paik e, per citare solo un esempio, se si guarda all’opera Sacro e Profano del 1993, si comprenderà immediatamente quanto il contrasto tra un elemento tecnologico-occidentale e uno spirituale-orientale sia utilizzato dall’artista per far avvertire allo spettatore le contraddizioni di una società complessa come quella post-moderna. Rifacendosi alla celebre opera Amor sacro e Amor profano di Tiziano (1515), Paik vuole preservare una certa ambiguità nell’opera, lasciare aperta un’incognita circa l’identificazione del tutto relativa del sacro e del profano nell’era della globalizzazione: nulla di più soggettivo che definire i parametri della sacralità. Il capovolgimento dei valori convenzionalmente dati dalla società è portato da Nam June Paik ai massimi estremi. L’artista ci mostra la società spoglia delle sue ipocrisie, mette a nudo tutta l’ambiguità di un secolo caotico che tenta di ridisegnarsi secondo un paradigma fallace.

Nam June Paik muore il 29 gennaio 2006 a Miami. In veste di esportatore di una cultura che all’altezza della seconda metà del ‘900 non godeva dello stesso riconoscimento di cui gode oggi, l’artista nel 2007 ha ricevuto la corona d’oro, geumgwan, dall’ordine al merito culturale della Corea del Sud, un riconoscimento conferito dal Presidente della Corea del Sud per “servizi meritevoli eccezionali nei campi della cultura e delle arti nell’interesse della promozione della cultura nazionale e dello sviluppo nazionale”. Ma il contributo del grande sciamano del video non interessa solo la Corea. L’aurea di sacralità che ammanta la figura del genio artistico è stata smontata da Paik che, come uno sciamano arrivato dall’Asia tra occidentali sordi alla spiritualità delle cose, ha adottato un linguaggio che fosse accessibile a tutti, ha studiato e adottato le dinamiche vincenti della pubblicità e dei mezzi mediatici. “L’arte e l’artista salveranno le differenze perché nel futuro probabilmente essi costituiranno la principale differenza all’interno del villaggio globale. Che Nam June Paik ci abbia indicato la strada non è così irrilevante.” afferma Gino Di Maggio (Di Maggio, 1994:20). E il contributo dello sciamano del video continua, a tutti gli effetti, ad essere una risorsa estremamente preziosa per comprendere e migliorare la società in cui stiamo vivendo.
Note
- “In any biography, be it that of a politician or an artist, the psychological profile of childhood is the important one. In this sense, growing up in a very corrupt family in a very confusing time (1932-1950), I learned how to survive, and survive well.” LEE Yong Woo, (1995), NJP: A Walk through His Adolescent Years in N.J. Paik, in The Electronic Super Highway: Travels with Nam June Paik, New York, Holly Solomon Gallery, p. 13.
- “People spend so much money to make not-beautiful people beautiful, or beautiful people plastic” TV Lab at WNET/Thirteen (VTR series), Nam June Paik: Edited for Television, New York, 1975.
Bibliografia
- Cabutti, L., Vescovo, M., Curti, D., a cura di, (2002), Il giocoliere elettronico. Nam June Paik e l’invenzione della videoarte, Torino, Hopefulmonster, p. 97.
- Di Maggio, G., a cura di, (1994), Nam June Paik, Lo sciamano del video, Milano, Mazzotta, p. 20.
- KUBOTA Shigeko, (2013), Watakushi No Ai, Namujun Paiku (My Love, Nam June Paik), Tōkyō, Heibonsha.
- LEE Yong Woo, (1995), NJP: A Walk through His Adolescent Years in N.J. Paik, in The Electronic Super Highway: Travels with Nam June Paik, New York, Holly Solomon Gallery, p. 13.
Sitografia
- PARK, C., (2015), A poor man from a poor country: Nam June Paik, TV Buddha, and the Techno-Orientalist Lens, in Techno-Orientalism: Imagining Asia in Speculative Fiction, History, and Media, Rutgers University Press, p. 213, (Consultato il 22 dicembre 2021) disponibile da: 15. A Poor Man from a Poor Country: Nam June Paik, TV-Buddha, and the Techno-Orientalist Lens (degruyter.com) https://www.degruyter.com/document/doi/10.36019/9780813570655-017/html
- TV Lab at WNET/Thirteen (VTR series), Nam June Paik: Edited for Television, New York, 1975
Immagini
- Nam June Paik | Gagosian: https://gagosian.com/artists/nam-june-paik/
- Nam June Paik and his Buddha TV, 1974, at Projects: Nam June Paik (August 29-October 10, 1977), Museum of Modern Art, New York, 1977, photo: Eric Kroll, Nam June Paik’s TV Buddhas – His best- known work – Public Delivery: https://publicdelivery.org/nam-june-paik-tv-buddha/
- Nam June Paik, Sacro e Profano, 1993 – coll. privata | Artribune: https://www.artribune.com/report/2013/03/litalia-e-paik-cronaca-di-un-amore/attachment/9-nam-june-paik-sacro-e-profano-1993-coll-privata/